SAGGI DI TURCATO

1954 RICORDI D'INFANZIA
Ricordo il primo pomeriggio d’agosto presso un ruscello. Vi si svolgeva una vita intensa. Ogni insetto cercava con le doti che gli erano state elargite da madre natura di acchiappare l’altro. Sia il ruscello che l’atmosfera avevano la stessa limpidità. Era la mia prima evasione panteistica dalla vita domestica, col sole alto era aumentata la vitalità dei suoi piccoli abitatori. A pochi passi c’era la strada dove correvano automobili e carretti ma lì era un mondo senza odi dove non esisteva né il bene né il male, era al di fuori di quello che comunemente gli uomini chiamano peccato. Indubbiamente c’era voracità e la morte era una conseguenza logica. Io stavo ore a guardare quanto avveniva in quel piccolo corso d’acqua, le mosse che faceva ogni insetto e i piccoli rettili per arrivare ad acchiappare ognuno la propria preda. Il tutto era regolato da una felicità e vivacità naturale che mi faceva incuriosire e gioire allo stesso tempo.
Giulio Turcato, “Ricordi d’infanzia,” in “Cartoccio di ricordi d’infanzia,” numero unico Dimensione, Roma, marzo 1956; Giorgio De Marchis, Turcato (Milano: Prearo, 1971), 94 – 95; Flaminio Gualdoni, Turcato (Ravenna: Pinacoteca comunale di Ravenna, 1982), p. 86.
1954 I TRE BISCOTTI

Era forse intorno al 1949, o giù di lì. Del resto non è un fatto che si possa localizzare in una particolare epoca con una data. Di questi fatti a via Margutta ne capitano di tutti i giorni.

Ospitavo nel mio studio due tipi. Uno aveva pubblicato da poco e con un certo successo un racconto su un importante quotidiano. L’altro non mi ricordo chi fosse.

Non c’è molto spazio nel mio studio; ma più che spazio difettavano i letti. Dormivamo accatastati sulla palafitta (il luogo sopraelevato dove io dormo) in tre. Questo tra parentesi accadeva molto spesso, ma non è questo il fatto.

Non avevamo molto da dirci e infatti non si parlava molto. Il racconto dello scrittore lasciava presagire bene, e l’altro non so cosa dovesse fare della sua vita, fatto sta che non aveva da dormire e veniva a dormire da me. Piano piano, i due fecero un’alleanza basata solamente su un tetto sotto il quale ripararsi, ma che presupponeva come vittima la mia persona. Una sera, tornai sul tardi a casa e per la verità non mi sentivo bene.

Dormii male la notte, e fra l’altro l’aria mefitica che di solito respiravo mi sembrava più pesante. I due russavano stretti in un abbraccio di derelitti come se dormissero il sonno eterno. Al mattino stavo peggio ed allora chiesi ai due di comprarmi qualche cosa di adeguato al mio male ed al bisogno di sostentarmi. Ci fu un rapido sguardo tra i due. Tirai fuori le ultime ed uniche mille lire e le porsi ad uno.

Altro sguardo tra i due che mi sembrava forse il più assurdo. Ma fatto sta che, ritornando verso sera, i due mi consegnarono un cartoccio che mi rivelò, non appena l’ebbi svolto, tre biscotti.

Alzai gli occhi meravigliato e subito uno, intuito il mio sguardo a modo suo, mi rifilò in mano cento lire. Dopo di che ci fu un silenzio pieno di incredibile assenteismo da parte di entrambi che intanto andavano distendendo una coperta sul pavimento per mettersi a dormire. Io stavo male e la febbre forse mi annebbiava il cervello, avevo anche bisogno forse, che so, di un’aspirina, di qualche altra cosa da mangiare! I due approfittarono del mio silenzio attonito e in un attimo furono sdraiati, abbracciati, e ronfanti. Rimasi così, come un fesso e la febbre alta mi salvò da ogni altra considerazione o bisogno. Non facevano nulla in realtà.

Al mattino quando ci si alzava (loro per forza) perché io dovevo uscire per lavoro, anche i due uscivano e mentre si preparavano avevano un’aria incredibile. Mi sentivo un ignobile sfaticato di fronte a loro che atteggiati in preciso modo avevano l’aria di quelli che usciti dal mio studio faranno cose straordinarie.

Poi quando ero pronto dicevo: «Andiamo?» E quelli infilavano la porta prima di me con aria sicura. Si percorreva la piccola casbah del 48 di via Margutta in silenzio, fino al portone, poi ci guardavamo in faccia. Io dicevo: «Bè, ciao, io vado di qua». E loro di rimando: «Noi andiamo di là». Ci allontanavamo tutti verso due punti differenti, loro pieni di dignità ed io così come uno che va al lavoro senza molta voglia al mattino presto d’inverno.

Ma la verità era questa che quei due partivano verso destra se io andavo a sinistra o viceversa se andavo a destra, tanto l’importante era di trascorrere quelle dodici ore che portavano al riposo notturno nel mio studio.

Non ci siamo mai detti queste cose, ma ognuno di noi le sapeva e per questo ci odiavamo: da poveracci, in modo fraterno.

Giulio Turcato in Pittori che scrivono. Antologia di scritti e disegni, a cura di Leonardo Sinisgalli, Milano, edizioni della Meridiana, 1954, pp. 217 – 219

1965 METAMORFOSI

Il risultato delle discussioni quale può essere?
Mi si chiede quale è la mia pittura in questo momento?
Spiegarlo non è facile.
Se un uccello è nato bianco, ma con qualche penna grigia,
può sembrare che una sua speranza o una piccola aspirazione fosse
di essere stato tutto grigio.
Nella mia pittura attualmente appare qualche segno o macchia o punto,
che può far diventare il quadro diverso dal colore del fondo
— grigio, rosso, bianco chessia.
Tale metamorfosi è il principio di un qualcosa che nasce,
e non più in modo formalistico, ma in maniera più profonda e intrinseca.
Un modo di agire psicologico e non didattico.
Un modo addirittura terapeutico, basato direi quasi sull'alienazione.
Ci si fa strada sugli altri (quelli di prima e di sempre)
con una distensione apparente.
Quali sono gli altri: sono quelli che vorrebbero ancora una società
con la sua educazione ricattatoria, che va da Dante a Michelangelo.
Mia madre mi diceva da piccolo, stai buono perché i fanti
stanno combattendo!
Così altre società cosidette civili, r'implorano altri Miti.
Il guaio è che per i più ha ancora ragione Michelangelo con
il Cristo Giudicante o il Christo Pancreator.
Per questo penso che questi segni, punti o macchie hanno la loro importanza.
Il fardello di una storia antica o più o meno recente non si porterà più.
E' il momento di fare tutta la trasmissione all'indietro
o in altro senso! Di rovesciare il nastro!
Non è facile: ma abbiamo il vantaggio che si può
provare e riprovare tante volte, perché non siamo ammalati
di pedagogismo.
Le libertà espressive, sono di chi se le prende. Quando non c'è
lo spazio se ne può inventare un altro. II metodo per inventarlo
è già quasi il nuovo spazio.
Così adagio adagio, pazientemente per cambiare l'espressione
e il tempo!
L'apporto di questa forma esistenziale, non può essere
in alcun modo negata, perché per lo meno ha generato un equilibrio
di fronte ai patetismi e ai fanatismi di facile uso.
Vedremo in futuro cosa potrà succedere su questa strada
e quale potrà essere la vicenda nel suo svolgimento.

Giulio Turcato, 'Metarmorfosi', 1965

1971 TURCATO E LA CINA

L’architettura antica ci appare così compatta e impoverita prima di tutto per la vera qualità dei piani regolatori che si sono svolti nelle varie epoche - per esempio nel periodo romano imperiale - date le esigenze dei rapporti con la massa diverse dal periodo repubblicano - essere Antidei sui piani regolatori. A noi sono pervenuti dei monumenti più significativi di questi piani, ma le dimostrazioni che ne sono state fatte secondo me sono imparziali e hanno un sapore romantico. La vita nelle varie arterie doveva svolgersi nel modo più consono e più aderente alla modernità che si poteva raggiungere in quel periodo. Come la civiltà romana così quella cinese per esempio aveva pensato a un piano unitario dalla città ai palazzi imperiali alle vie di comunicazione. La mancanza dell’acqua specialmente nel Nord faceva in modo che si scavavano laghetti artificiali che davano la possibilità di vita e quindi nuove arterie di movimento. La civiltà gotica cinese che è il prototipo dell’architettura medievale - aveva i suoi piani regolatori importati dalla chiesa - in questo senso l’architettura medievale è più limitata e meno razionale e fatta in modo molto minore, per soddisfare le vere esigenze urbanistiche igieniche di tutti i cittadini. Si può dire che della pianta città poi del rinascimento che come importanza guardava quella romana - era di una importanza più formale che altro nei confronti del modello antico - ossia romanticamente si sentiva attratta verso quell’apertura estetica ma non poteva capire il grado di necessità civica e urbanistica che aveva dato la planimetria della città e addirittura delle regioni nell’antichità.

Partiti da Mosca e attraversata la Russia e la Siberia, arriviamo ad Irkusch, ultima tappa in territorio russo. Dopo qualche ora di riposo partiamo la mattina prestissimo. Il pilota sovietico ci avverte che attraverseremo l’ultima parte della Russia (circa un’ora di aereo) per entrare in Mongolia, quindi sorvoleremo il deserto di Gobi, poi Pechino. Al confine mongolo l’aereo fa un giro come per orizzontarsi e poi riprende velocemente la sua rotta. Sotto si vede una distesa enorme color marrone, solcata in qualche punto da piccole tracce o sentieri; più avanti vi è tutta una vegetazione fittizia, fatta di alberelli erbe e licheni, vegetazione che credo scomparirà al primo grande calore. Già il terreno battuto dal sole rimanda il calore, malgrado il vento freddo che viene dal Nord. Ma dopo la sosta in territorio mongolo ecco il vero deserto - di un disegno veramente asiatico e di enorme estensione e con colori più ricchi di quelli della Siberia e dell’Europa in generale. Una grande quantità di piccole nuvolette sale dalle pozzanghere di acqua e di neve, ad una certa distanza una dall’altra - sembra un fuoco antiaereo - ogni nuvoletta ha la sua ombra celeste-viola. Naturalmente questa corrente d’aria calda in ascesa richiama una corrente d’aria fredda dall’Artico. L’aereo è a quattromila metri, come ci avverte il pilota, e fugge a fortissima velocità - sotto le nuvolette si sono infittite, sono ora un gruppo compatto ed enorme - sopra bianchissimo sotto il sole e sotto invece portano un enorme polverone giallo che confonde aria e terra. E’ quello stesso polverone che arriva fino a Pechino. L’aereo ha sbalzi e rollii continui, così fino all’ultimo baluardo di montagne. Perdiamo quota. Si vede già il disegno ben fatto della campagna cinese. Si atterra sul campo di aviazione di Pechino, sono le due del pomeriggio. La Società degli Artisti cinesi ci manda i suoi rappresentanti con dei mazzi di fiori. E’ il primo gentile saluto della Cina popolare. Dalla macchina che ci trasporta in albergo vediamo gente laboriosa forte e sana che tira carretti o ci precede in bicicletta - bambini che giocano - tutto in una campagna fiorita e cosparsa di alberelli - finché entriamo a Pechino che al primo apparire sembra un città quasi fittizia, dato che sulla strada vi sono solo delle quinte che rappresentano i negozi, e dietro le case di abitazione molto basse con il cortile nel mezzo.
Nelle piccole strade che gli europei hanno imitato sia nella realtà che nel cinema, vi è un andirivieni di folla infinita. Una folla gaia e operosa, uomini e donne vestiti dell’abito cinese attuale - standard, ma molto elegante nella sua semplicità. A proposito, in confronto il vestito dei Russi con quello dei Cinesi. Ridono quando si accenna alla larghezza dei pantaloni che portano i Russi. Gli alberghi per ospitare le infinite visite di delegazioni straniere che visitano la Cina, e Pechino in particolare, sono degli enormi edifici più moderni e confortevoli dove il personale cinese si adopera perché agli ospiti non manchi niente - rifiuta sistematicamente le mance e il volto appare sempre sorridente. Ho assistito a un ballo che fa ogni sabato il personale con un’orchestra che suonava anche “O’ sole mio”. Il tutto si svolgeva con una semplicità veramente sorprendente senza le facce melate e stravolte che si riscontrano nelle nostre sale da ballo. Così la prima cosa che si riscontra in questo paese di democrazia popolare è la quantità enorme di operai artigiani che alla sera frequentano il teatro cinese, dove si danno spettacoli veramente eccezionali.
La grande quantità di visitatori che frequenta gli ex giardini imperiali, i nuovi musei e l’interesse che questo popolo ha per le cose del costruire che dell’arte...d’altra parte i monumenti lasciati dall’antichità sono di una tale mole e stupore nel loro ragionamento architettonico che lascia meravigliato lo spettatore di qualsiasi parte del mondo. Il loro problema mentale era di dare un senso di finito all’infinito di questa terra. Così enormi cortili uno dentro l’altro, ognuno con gli enormi vasi di bronzo per raccogliere l’acqua piovana, dato il problema della siccità, che nel nord specialmente era uno dei tanti flagelli. Così il creare laghetti artificiali con ponticelli e boschetti, dove la popolazione può pescare pesci e molluschi, che la cucina cinese ha in tanti modi pensato di rendere commestibili nel migliore dei modi.
Ciò che rende simpatici i cinesi è la naturalezza immediata con cui ti mostrano quello che sanno fare. Non hanno scrupoli di sorta. Gentilmente poi ti chiedono la tua critica, sorridendo. Dicono francamente che hanno bisogno di tecnici. Mostrano senza vanteria la retorica della loro rivoluzione. Che però ha dato una costituzione e un modo di vivere migliore di quelle occidentali di dittatura, e non confrontabile con il regime che avevano prima.

E’ singolarissima la loro naturalezza nel dire le cose, gli stipendi - in molti casi non molto alti - ma che danno una base momentanea di minimo indispensabile a tutti, e che col tempo potrà diventare agiatezza. Moltissimi si sono sposati giovanissimi e non hanno, nel dire che hanno già due e tre figli, quell’aria preoccupata e piena di importanza che hanno da noi anche i contadini, per far vedere che finalmente hanno messo la testa a posto, cosa che poi non risulta vera. Te lo dicono come una ragazzata e una cosa naturale.

Testo di Giulio Turcato tratto dalla pubblicazione “Turcato e la Cina”, Raccolta di temi e impressioni a cura di Vana Caruso, La Nuova Foglio Editrice Spa – Pollenza, Macerata, Agosto 1971

1981 AUTORITRATTO

Mi considero molto irregolare nella mia espressione di vita: seguo contemporaneamente pensieri diversi, che si intersecano liberamente. Così è il mio modo di vivere alla giornata. Mi piace camminare in mezzo alla gente, e tutto quello che succede è il mio programma.

Le persone che incontro nelle mie passeggiate quotidiane, e con le quali a volte ho brevissime, a volte lunghe conversazioni, sono le più disparate, e tutte, anche quelle che non riconosco, mi danno lo spunto per una visione globale del modo di vivere, e così io formo un collage di sensazioni che al momento scompaiono e più tardi riaffiorano in altro modo.

Credo di essere tanto distratto da apparire qualche volta fastidioso nei miei incontri.

Guardo con curiosità le gambe delle donne - mi piacciono quelle lunghe - e le diverse andature. Le passeggiate mi servono per itinerari sia esteriori che interiori. Particolari pensieri durante la giornata sono: se dovrò mangiare o no, se dovrò camminare o no, se dovrò incontrare qualcuno o dove dovrò andare, e intanto dimentico gli appuntamenti che potevo avere. Insomma, le mie passeggiate sono itinerari di incertezza. Una volta andavo in cerca magari di qualcuno con cui “riversarsi” le idee, ora invece ho solo dei pensieri elementari, sia sessuali che di vita pratica. Non credo che gli altri cogitino in modo molto più acuto o sublime del mio. Ad ogni modo non penso molto a quello che possono pensare gli altri. In fondo vedo il mondo come si vede nelle riprese cinematografiche sull’Africa: orde di elefanti poi seguite da altre bestie, e poi forse qualche volta si vede un leone. Quasi lo stesso leone che si vede sotto il monumento di Daniele Manin a Venezia.

Quando stavo a Venezia ed ero più giovane mi piaceva camminare nella nebbia della laguna, e sentire in quel silenzio le due sirene del porto che servivano per dare la rotta alle navi che dovevano entrare. Invece ora le mie passeggiate sono più igieniche, e mi aiutano a catalogare e a trarre delle conclusioni dalle circostanze nelle loro contraddizioni, oppure a rimanere senza conclusioni. Lavoro discontinuamente, ma continuamente, intervallando il fare metodico con l’osservazione di quello che sto dipingendo. Mi concentro e mi distraggo alternativamente, e in questo continuo fluttuare aspetto che mi venga in mente una forma o un colore da mettere sulla tela per completare il gesto.

Gli itinerari che ho seguito per individuare la mia verve artistica fin da quando andavo a scuola sono stati le opere di Cézanne, Gauguin o Van Gogh, poiché l’arte moderna è cominciata con loro . Poi, viaggiando e guardando musei e quadri ho fatto la mia scelta, che mi ha portato alla ricerca astratta e all’identificarmi quasi somaticamente in questa estetica. Naturalmente ho sempre apprezzato artisti come Monet, i fauves, Matisse, Picasso, Masson, i primi futuristi, Kandinskij, Klee.

Credo che da un pezzo siamo in un periodo di revisione della validità dell’opera d’arte, qualsiasi essa sia, nel formalismo o nell’invenzione. Ho pensato che forse non ci sono fatti risolutivi o modelli inalienabili: questo non può essere, perché anche nell’arte c’è il relativo. L’emotività è relativa a un dato periodo, perché l’arte, quando raggiunge uno stile, ha una bellezza a sé stante.

Per la conquista di un’espressione artistica è necessario procedere con persistenza nelle conoscenze tecniche che abbiamo, per poi di volta in volta usarle nel miglior modo possibile, ma anche violentarle e andare oltre. E’ questa la libertà che ci ha dato l’arte moderna, con le esperienze individuali e di gruppo che hanno creato i movimenti artistici la cui azione progressiva è in atto.

Come forma del mio carattere sono portato all’introspezione: su me stesso, sugli altri e sui sistemi in generale . Vedo e giudico gli avvenimenti intellettuali e politici attraverso le estetiche: in tal modo si può vedere se un sistema è più o meno tirannico o libertario. Un tempo avevo l’idea che sistemi con un solo sviluppo estetico, essendo più unitari, andassero bene per l’umanità (il romanico, il gotico, il barocco, il razionalismo). Ora sono di altra opinione, ossia che la libertà del sistema espressivo è l’unica strada per poter combattere i bizantinismi, la grettezza delle politica, che con la sua limitazione vuole abolire le forme d’arte che possono dare fastidio alla prepotenza e all’affermazione del potere.

Giulio Turcato, “Autoritratto,” Bolaffi Arte, marzo 1981, pp. 66 – 69.

1982 VORREI ARRIVARE A INVENTARE QUALCOSA

Vorrei arrivare a inventare qualcosa, anche se non è semplice,
anche se in fondo gli stessi mezzi della pittura sono limitati.
Forse la musica ne ha di migliori . Nella pittura hai a che fare
con una superficie dura da smuovere come la tela, e da cui è complicato uscire.
Io sperimento per riuscire a spostare un po’ più in là il limite dell’espressione possibile,
per dilatare il linguaggio. Bisogna creare una forma intensamente psicologica,
lavorando anche sugli strumenti. (…) L’assoluto è semmai nell’immagine. La pittura è il veicolo.
Ecco perché non amo l’astrazione geometrica,
perché si lavora sempre su una forma dura, fisica, che ha una storia.
Giulio Turcato, 1982

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