Era forse intorno al 1949, o giù di lì. Del resto non è un fatto che si possa localizzare in una particolare epoca con una data. Di questi fatti a via Margutta ne capitano di tutti i giorni.
Ospitavo nel mio studio due tipi. Uno aveva pubblicato da poco e con un certo successo un racconto su un importante quotidiano. L’altro non mi ricordo chi fosse.
Non c’è molto spazio nel mio studio; ma più che spazio difettavano i letti. Dormivamo accatastati sulla palafitta (il luogo sopraelevato dove io dormo) in tre. Questo tra parentesi accadeva molto spesso, ma non è questo il fatto.
Non avevamo molto da dirci e infatti non si parlava molto. Il racconto dello scrittore lasciava presagire bene, e l’altro non so cosa dovesse fare della sua vita, fatto sta che non aveva da dormire e veniva a dormire da me. Piano piano, i due fecero un’alleanza basata solamente su un tetto sotto il quale ripararsi, ma che presupponeva come vittima la mia persona. Una sera, tornai sul tardi a casa e per la verità non mi sentivo bene.
Dormii male la notte, e fra l’altro l’aria mefitica che di solito respiravo mi sembrava più pesante. I due russavano stretti in un abbraccio di derelitti come se dormissero il sonno eterno. Al mattino stavo peggio ed allora chiesi ai due di comprarmi qualche cosa di adeguato al mio male ed al bisogno di sostentarmi. Ci fu un rapido sguardo tra i due. Tirai fuori le ultime ed uniche mille lire e le porsi ad uno.
Altro sguardo tra i due che mi sembrava forse il più assurdo. Ma fatto sta che, ritornando verso sera, i due mi consegnarono un cartoccio che mi rivelò, non appena l’ebbi svolto, tre biscotti.
Alzai gli occhi meravigliato e subito uno, intuito il mio sguardo a modo suo, mi rifilò in mano cento lire. Dopo di che ci fu un silenzio pieno di incredibile assenteismo da parte di entrambi che intanto andavano distendendo una coperta sul pavimento per mettersi a dormire.
Io stavo male e la febbre forse mi annebbiava il cervello, avevo anche bisogno forse, che so, di un’aspirina, di qualche altra cosa da mangiare! I due approfittarono del mio silenzio attonito e in un attimo furono sdraiati, abbracciati, e ronfanti. Rimasi così, come un fesso e la febbre alta mi salvò da ogni altra considerazione o bisogno.
Non facevano nulla in realtà. Al mattino quando ci si alzava (loro per forza) perché io dovevo uscire per lavoro, anche i due uscivano e mentre si preparavano avevano un’aria incredibile. Mi sentivo un ignobile sfaticato di fronte a loro che atteggiati in preciso modo avevano l’aria di quelli che usciti dal mio studio faranno cose straordinarie.
Poi quando ero pronto dicevo: «Andiamo?» E quelli infilavano la porta prima di me con aria sicura.
Si percorreva la piccola casbah del 48 di via Margutta in silenzio, fino al portone, poi ci guardavamo in faccia.
Io dicevo: «Bè, ciao, io vado di qua».
E loro di rimando: «Noi andiamo di là».
Ci allontanavamo tutti verso due punti differenti, loro pieni di dignità ed io così come uno che va al lavoro senza molta voglia al mattino presto d’inverno.
Ma la verità era questa che quei due partivano verso destra se io andavo a sinistra o viceversa se andavo a destra, tanto l’importante era di trascorrere quelle dodici ore che portavano al riposo notturno nel mio studio. Non ci siamo mai detti queste cose, ma ognuno di noi le sapeva e per questo ci odiavamo: da poveracci, in modo fraterno.
Giulio Turcato in Pittori che scrivono. Antologia di scritti e disegni, a cura di Leonardo Sinisgalli, Milano, edizioni della Meridiana, 1954, pp. 217 – 219
Mi si chiede quale è la mia pittura in questo momento?
Spiegarlo non è facile.
Se un uccello è nato bianco, ma con qualche penna grigia,
può sembrare che una sua speranza o una piccola aspirazione fosse
di essere stato tutto grigio.
Nella mia pittura attualmente appare qualche segno o macchia o punto,che può far diventare il quadro diverso dal colore del fondo — grigio, rosso, bianco chessia.
Tale metamorfosi è il principio di un qualcosa che nasce,e non più in modo formalistico, ma in maniera più profonda e intrinseca
Un modo di agire psicologico e non didattico.Un modo addirittura terapeutico, basato direi quasi sull' alienazione.
Ci si fa strada sugli altri (quelli di prima e di sempre)con una distensione apparente. Quali sono gli altri: sono quelli che vorrebbero ancora una società con la sua educazione ricattatoria, che va da Dante a Michelangelo.
Mia madre mi diceva da piccolo, stai buono perché i fantistanno combattendo! Così altre società cosidette civili, r'implorano altri Miti.
Il guaio è che per i più ha ancora ragione Michelangelo conil Cristo Giudicante o il Christo Pancreator.
Per questo penso che questi segni, punti o macchie hanno la loro importanza.Il fardello di una storia antica o più o meno recente non si porterà più.
E' il momento di fare tutta la trasmissione all' indietro in altro senso!
Di rovesciare il nastro!Non è facile: ma abbiamo il vantaggio che si può provare e riprovare tante volte, perché non siamo ammalati di pedagogismo. Le libertà espressive, sono di chi se le prende. Quando non c'è lo spazio se ne può inventare un altro. II metodo per inventarlo è già quasi il nuovo spazio.Così adagio adagio, pazientemente per cambiare l'espressione e il tempo!
L'apporto di questa forma esistenziale, non può essere in alcun modo negata, perché per lo meno ha generato un equilibrio di fronte ai patetismi e ai fanatismi di facile uso.
Vedremo in futuro cosa potrà succedere su questa strada e quale potrà essere la vicenda nel suo svolgimento.
Giulio Turcato, 'Metarmorfosi', 1965
L’architettura antica ci appare così compatta e impoverita prima di tutto per la vera qualità dei piani regolatori che si sono svolti nelle varie epoche - per esempio nel periodo romano imperiale - date le esigenze dei rapporti con la massa diverse dal periodo repubblicano - essere Antidei sui piani regolatori. A noi sono pervenuti dei monumenti più significativi di questi piani, ma le dimostrazioni che ne sono state fatte secondo me sono imparziali e hanno un sapore romantico. La vita nelle varie arterie doveva svolgersi nel modo più consono e più aderente alla modernità che si poteva raggiungere in quel periodo. Come la civiltà romana così quella cinese per esempio aveva pensato a un piano unitario dalla città ai palazzi imperiali alle vie di comunicazione. La mancanza dell’acqua specialmente nel Nord faceva in modo che si scavavano laghetti artificiali che davano la possibilità di vita e quindi nuove arterie di movimento. La civiltà gotica cinese che è il prototipo dell’architettura medievale - aveva i suoi piani regolatori importati dalla chiesa - in questo senso l’architettura medievale è più limitata e meno razionale e fatta in modo molto minore, per soddisfare le vere esigenze urbanistiche igieniche di tutti i cittadini. Si può dire che della pianta città poi del rinascimento che come importanza guardava quella romana - era di una importanza più formale che altro nei confronti del modello antico - ossia romanticamente si sentiva attratta verso quell’apertura estetica ma non poteva capire il grado di necessità civica e urbanistica che aveva dato la planimetria della città e addirittura delle regioni nell’antichità.
Partiti da Mosca e attraversata la Russia e la Siberia, arriviamo ad Irkusch, ultima tappa in territorio russo. Dopo qualche ora di riposo partiamo la mattina prestissimo. Il pilota sovietico ci avverte che attraverseremo l’ultima parte della Russia (circa un’ora di aereo) per entrare in Mongolia, quindi sorvoleremo il deserto di Gobi, poi Pechino. Al confine mongolo l’aereo fa un giro come per orizzontarsi e poi riprende velocemente la sua rotta. Sotto si vede una distesa enorme color marrone, solcata in qualche punto da piccole tracce o sentieri; più avanti vi è tutta una vegetazione fittizia, fatta di alberelli erbe e licheni, vegetazione che credo scomparirà al primo grande calore. Già il terreno battuto dal sole rimanda il calore, malgrado il vento freddo che viene dal Nord. Ma dopo la sosta in territorio mongolo ecco il vero deserto - di un disegno veramente asiatico e di enorme estensione e con colori più ricchi di quelli della Siberia e dell’Europa in generale. Una grande quantità di piccole nuvolette sale dalle pozzanghere di acqua e di neve, ad una certa distanza una dall’altra - sembra un fuoco antiaereo - ogni nuvoletta ha la sua ombra celeste-viola. Naturalmente questa corrente d’aria calda in ascesa richiama una corrente d’aria fredda dall’Artico. L’aereo è a quattromila metri, come ci avverte il pilota, e fugge a fortissima velocità - sotto le nuvolette si sono infittite, sono ora un gruppo compatto ed enorme - sopra bianchissimo sotto il sole e sotto invece portano un enorme polverone giallo che confonde aria e terra. E’ quello stesso polverone che arriva fino a Pechino. L’aereo ha sbalzi e rollii continui, così fino all’ultimo baluardo di montagne. Perdiamo quota. Si vede già il disegno ben fatto della campagna cinese. Si atterra sul campo di aviazione di Pechino, sono le due del pomeriggio. La Società degli Artisti cinesi ci manda i suoi rappresentanti con dei mazzi di fiori. E’ il primo gentile saluto della Cina popolare. Dalla macchina che ci trasporta in albergo vediamo gente laboriosa forte e sana che tira carretti o ci precede in bicicletta - bambini che giocano - tutto in una campagna fiorita e cosparsa di alberelli - finché entriamo a Pechino che al primo apparire sembra un città quasi fittizia, dato che sulla strada vi sono solo delle quinte che rappresentano i negozi, e dietro le case di abitazione molto basse con il cortile nel mezzo.
Nelle piccole strade che gli europei hanno imitato sia nella realtà che nel cinema, vi è un andirivieni di folla infinita. Una folla gaia e operosa, uomini e donne vestiti dell’abito cinese attuale - standard, ma molto elegante nella sua semplicità. A proposito, in confronto il vestito dei Russi con quello dei Cinesi. Ridono quando si accenna alla larghezza dei pantaloni che portano i Russi. Gli alberghi per ospitare le infinite visite di delegazioni straniere che visitano la Cina, e Pechino in particolare, sono degli enormi edifici più moderni e confortevoli dove il personale cinese si adopera perché agli ospiti non manchi niente - rifiuta sistematicamente le mance e il volto appare sempre sorridente. Ho assistito a un ballo che fa ogni sabato il personale con un’orchestra che suonava anche “O’ sole mio”. Il tutto si svolgeva con una semplicità veramente sorprendente senza le facce melate e stravolte che si riscontrano nelle nostre sale da ballo. Così la prima cosa che si riscontra in questo paese di democrazia popolare è la quantità enorme di operai artigiani che alla sera frequentano il teatro cinese, dove si danno spettacoli veramente eccezionali.
La grande quantità di visitatori che frequenta gli ex giardini imperiali, i nuovi musei e l’interesse che questo popolo ha per le cose del costruire che dell’arte...d’altra parte i monumenti lasciati dall’antichità sono di una tale mole e stupore nel loro ragionamento architettonico che lascia meravigliato lo spettatore di qualsiasi parte del mondo. Il loro problema mentale era di dare un senso di finito all’infinito di questa terra. Così enormi cortili uno dentro l’altro, ognuno con gli enormi vasi di bronzo per raccogliere l’acqua piovana, dato il problema della siccità, che nel nord specialmente era uno dei tanti flagelli. Così il creare laghetti artificiali con ponticelli e boschetti, dove la popolazione può pescare pesci e molluschi, che la cucina cinese ha in tanti modi pensato di rendere commestibili nel migliore dei modi.
Ciò che rende simpatici i cinesi è la naturalezza immediata con cui ti mostrano quello che sanno fare. Non hanno scrupoli di sorta. Gentilmente poi ti chiedono la tua critica, sorridendo. Dicono francamente che hanno bisogno di tecnici. Mostrano senza vanteria la retorica della loro rivoluzione. Che però ha dato una costituzione e un modo di vivere migliore di quelle occidentali di dittatura, e non confrontabile con il regime che avevano prima.
E’ singolarissima la loro naturalezza nel dire le cose, gli stipendi - in molti casi non molto alti - ma che danno una base momentanea di minimo indispensabile a tutti, e che col tempo potrà diventare agiatezza. Moltissimi si sono sposati giovanissimi e non hanno, nel dire che hanno già due e tre figli, quell’aria preoccupata e piena di importanza che hanno da noi anche i contadini, per far vedere che finalmente hanno messo la testa a posto, cosa che poi non risulta vera. Te lo dicono come una ragazzata e una cosa naturale.
Testo di Giulio Turcato tratto dalla pubblicazione “Turcato e la Cina”, Raccolta di temi e impressioni a cura di Vana Caruso, La Nuova Foglio Editrice Spa – Pollenza, Macerata, Agosto 1971
Mi considero molto irregolare nella mia espressione di vita: seguo contemporaneamente pensieri diversi, che si intersecano liberamente. Così è il mio modo di vivere alla giornata. Mi piace camminare in mezzo alla gente, e tutto quello che succede è il mio programma.
Le persone che incontro nelle mie passeggiate quotidiane, e con le quali a volte ho brevissime, a volte lunghe conversazioni, sono le più disparate, e tutte, anche quelle che non riconosco, mi danno lo spunto per una visione globale del modo di vivere, e così io formo un collage di sensazioni che al momento scompaiono e più tardi riaffiorano in altro modo.
Credo di essere tanto distratto da apparire qualche volta fastidioso nei miei incontri.
Guardo con curiosità le gambe delle donne - mi piacciono quelle lunghe - e le diverse andature. Le passeggiate mi servono per itinerari sia esteriori che interiori. Particolari pensieri durante la giornata sono: se dovrò mangiare o no, se dovrò camminare o no, se dovrò incontrare qualcuno o dove dovrò andare, e intanto dimentico gli appuntamenti che potevo avere. Insomma, le mie passeggiate sono itinerari di incertezza. Una volta andavo in cerca magari di qualcuno con cui “riversarsi” le idee, ora invece ho solo dei pensieri elementari, sia sessuali che di vita pratica. Non credo che gli altri cogitino in modo molto più acuto o sublime del mio. Ad ogni modo non penso molto a quello che possono pensare gli altri. In fondo vedo il mondo come si vede nelle riprese cinematografiche sull’Africa: orde di elefanti poi seguite da altre bestie, e poi forse qualche volta si vede un leone. Quasi lo stesso leone che si vede sotto il monumento di Daniele Manin a Venezia.
Quando stavo a Venezia ed ero più giovane mi piaceva camminare nella nebbia della laguna, e sentire in quel silenzio le due sirene del porto che servivano per dare la rotta alle navi che dovevano entrare. Invece ora le mie passeggiate sono più igieniche, e mi aiutano a catalogare e a trarre delle conclusioni dalle circostanze nelle loro contraddizioni, oppure a rimanere senza conclusioni. Lavoro discontinuamente, ma continuamente, intervallando il fare metodico con l’osservazione di quello che sto dipingendo. Mi concentro e mi distraggo alternativamente, e in questo continuo fluttuare aspetto che mi venga in mente una forma o un colore da mettere sulla tela per completare il gesto.
Gli itinerari che ho seguito per individuare la mia verve artistica fin da quando andavo a scuola sono stati le opere di Cézanne, Gauguin o Van Gogh, poiché l’arte moderna è cominciata con loro . Poi, viaggiando e guardando musei e quadri ho fatto la mia scelta, che mi ha portato alla ricerca astratta e all’identificarmi quasi somaticamente in questa estetica. Naturalmente ho sempre apprezzato artisti come Monet, i fauves, Matisse, Picasso, Masson, i primi futuristi, Kandinskij, Klee.
Credo che da un pezzo siamo in un periodo di revisione della validità dell’opera d’arte, qualsiasi essa sia, nel formalismo o nell’invenzione. Ho pensato che forse non ci sono fatti risolutivi o modelli inalienabili: questo non può essere, perché anche nell’arte c’è il relativo. L’emotività è relativa a un dato periodo, perché l’arte, quando raggiunge uno stile, ha una bellezza a sé stante.
Per la conquista di un’espressione artistica è necessario procedere con persistenza nelle conoscenze tecniche che abbiamo, per poi di volta in volta usarle nel miglior modo possibile, ma anche violentarle e andare oltre. E’ questa la libertà che ci ha dato l’arte moderna, con le esperienze individuali e di gruppo che hanno creato i movimenti artistici la cui azione progressiva è in atto.
Come forma del mio carattere sono portato all’introspezione: su me stesso, sugli altri e sui sistemi in generale . Vedo e giudico gli avvenimenti intellettuali e politici attraverso le estetiche: in tal modo si può vedere se un sistema è più o meno tirannico o libertario. Un tempo avevo l’idea che sistemi con un solo sviluppo estetico, essendo più unitari, andassero bene per l’umanità (il romanico, il gotico, il barocco, il razionalismo). Ora sono di altra opinione, ossia che la libertà del sistema espressivo è l’unica strada per poter combattere i bizantinismi, la grettezza delle politica, che con la sua limitazione vuole abolire le forme d’arte che possono dare fastidio alla prepotenza e all’affermazione del potere.
Giulio Turcato, “Autoritratto,” Bolaffi Arte, marzo 1981, pp. 66 – 69.
Vorrei arrivare a inventare qualcosa, anche se non è semplice, anche se in fondo gli stessi mezzi della pittura sono limitati.
Forse la musica ne ha di migliori . Nella pittura hai a che fare con una superficie dura da smuovere come la tela, e da cui è complicato uscire.
Io sperimento per riuscire a spostare un po’ più in là il limite dell’espressione possibile, per dilatare il linguaggio. Bisogna creare una forma intensamente psicologica, lavorando anche sugli strumenti. (…)
L’assoluto è semmai nell’immagine.
La pittura è il veicolo.
Ecco perché non amo l’astrazione geometrica, perché si lavora sempre su una forma dura, fisica, che ha una storia.
Giulio Turcato, 1982
Ancora siamo chiamati a registrare l'ennesimo ragguaglio del mondo pittorico di Giulio Turcato, trepido, avventuroso atleta dello Spirito Sensitivo Minimo; e possiamo considerarci tutti pronti, per lungo esercizio e convivenza ideale, a guardare insieme queste tracce di irripetibili delizie: oracoli della solitudine, stigmate e brandelli di emblemi genitivi, musica sostenuta di invenzioni attonite e inventiva di una pronuncia minimale del delirio, segnali affacciati dalla nebula organica; scritti i frantumi della immobilità fluttuante, scritte le misure della intermittenza della Cecità del Sereno, che si battono come colombe; scritte le volute regressive di un oratorio terrorizzato, le irrigazioni del silenzio che nuota per le luci ghiacciate, aride, per luci fisiologiche ingenerate, e la misteriosa evocazione (misteriosissimo il colore che la incarna) di una altra impossibile prosciugata bruciata serenità. Tra irrequieti svincoli e dispersioni e sfumate del segnale, absidi e crateri di piccole nozioni misurate, nicchie e baratri puerili, caotiche macule e frastagli a snodi, sarmenti che un incendio di sangue provoca e consuma sulla soglia dell'Erebo personale, dell'Erebo erratico, nomadico, alla deriva, bave di fiammule, accensioni di diademi solubili, strappi nel folto della fermentazione illusoria e cieca colma come un finimondo puerile, arie scardinate confuse di una quotidianità espulsa, deiettata, crivellata e baciata.
I brevissimi circuiti di respirazione tracciano il ricordo (proliferazione) di orizzonti teneri e irrespirabili, macchie vuote che sono piccoli mausolei dell'assurdo e della veemenza. Tra fiato e nebbia inseparabilmente uniti in una sincrasi divincolata, in una grande larva esagitata, tenta l'impercettibile sorpresa, o il trasalimento della vita, l'ossessione di una progressiva ascesa nel seno dell'Aridità, e così disegna la sua intermittente galassia, la sua tenia-galassia, il verme superconduttore. Qui il colore, strumento emotivo, vigilia e vigilanza dell'essere senza pathos, emulazione dell'energia superna, cerca di veder luce nelle dimore segrete, appartate, del rischio e dell'ambiguo: riviere che si spezzano e si riannodano, che recingono ombre di tempi vaganti, di spazi morti, l'ostinazione protratta fino alla indeterminazione, l'incredibilità lunga e densa dì squarci assonnati, audaci compattezze, forze di gravità temperate e stemperate nei gioco sensorio, in bilico tra immagine esterna e un vacuum intimo, umbratile. Là dove il pittore cerca la struttura medesima della esasperazione, della vita che consuma e che si consuma irraggiando, e riverberando la disperata (non sperata) nozione della psiche, l'esercizio assoluto del risveglio e dell'abbandono, dell'ebbro e dell'assente. Questo spiega la pittura di Turcato, l'equilibrio nel dominio e nella regolamentazione dell'informe, il sistema semplice delle cicatrici nei campi dello omogeneo, il fervore nell'area della psicomachia, il vibrare e fermentare, sui fondali, delle cariche sprovvedute di segno, prive di segnale. Ogni quadro appare come mediazione tra evidenza grafica e audacissima emozione; ardore al di là degli ordini combinatori e delle giunture emblematiche, dove un popolo fitto (un campo, un accampo) di radici e radicali tende a scatenarsi, per svelarsi sensibilmente: fixatio del flusso e riflusso ottico, riconoscimento e ragguaglio di poteri non esplicabili nel senso dei sostantivi riconosciuti istituiti dal codice volgare, povero di sè e deperito, codice della reminescenza svagata. Cultore angosciato del fantastico sociale, nella sua operazione contradittoria Turcato nega e scalza la fantasia (quella fantasia che indulge al terrorismo imperante del potere) e attesta ancora, e solo, l'incertezza dei moti e delle loro remotissime fonti, e testimonia le sollecitazioni oscure della distruzione di sé dentro i contesti della inesausta cosmogonia. E così tenta la negazione del terrorismo economico, con un espediente puerile ma prepotente: contro sciami di luminosità grezze e torbide, su velluti di finti naufragi secchi, depone la moneta della assenza, della opinione irrisoria, il prezzo dei nulla, del nulla corroborante, la monetina di stagnola come semenza di tenerezze tribali, il rischio dell'assoluto inerme e dello spontaneo totale, consono alle superiori densità.
Bisognerà oggi che tutti noi, appassionati dell'opera di Giulio Turcato, e ogni appassionato della poesia, si cominci a considerare quest'opera come un immenso vitale diario in extenso, come un secretum, come un itenerarium mentis in, come un incessante tractatus, come una nuova iniziativa, qui imitatio sui, imitatici comlis, giusto da mettere al fianco delle grandi operazioni mistiche, a fianco della imitatio Christi di Tommaso da Kempis: cioè la clamorosa inquietante immedesimazione nella Ansia e nei Dominio Speculare dei Disorientato, lungo la catena degli cronemi, planctemi, antemi, anatemi, pleromemi, nevremi: gli inganni articolati dell'immagine delirata, dell'occasione pulsante, vene di Ragione assurda, prefigurazione e semplici germinazioni di idee totalmente allergiche al Sospetto Utilitario.
Emilio Villa, Giulio Turcato, catalogo mostra, Centro D'Arte La Barcaccia, Montecatini Terme, 1969
p. 24 - 25
Se vuoi parlare di Raffaello, parliamo di Raffaello. Eh, sai, Raffaello è indubbiamente…Intanto, secondo me, non è stato mai capito. Lui non è stato capito quando ha fatto delle cose veramente per sé, perchè in generale è nominato per La Madonna della seggiola, Le Stanze che, indubbiamente, sono delle cose un po’… Scuola d’Atene, ecc., sono delle cose grandiose; delle altre, invece, sono già …arieggiano il barocco. E, poi, lui aveva una grande…lui era un genio, ossia il genio… Lui, in fondo, era un artista stupido, però aveva questa forza che, proprio, viene dal genio, insomma, di trasformare le cose.
p.53
Io ho avuto quest’abitudine di fare i quadri, ma non è che mi sento legato proprio al quadro. Io trovo che il quadro è ancora la forma più economica per fare l’arte o, diciamo, in questa disciplina, che consente di spendere meno per avere di più […] Del resto trovo anche non necessario fare dei quadri.
p.73
Qualsiasi espressione artistica è in una situazione abbastanza curiosa, è fatta in un momento in cui tu, proprio non è che…la tua intuizione, poi, va avanti e arrivi a fare questo oggetto. Però dopo, non è che puoi essere proprio cosciente di come è avvenuto.
p. 116
Tutto sommato gli artisti, o certi gruppi di artisti, sono ancora gli attori, I protagonisti di un certo giudizio, più o meno critico o fattivo. D’altra parte […] il gusto della società italiana è ancora arretrato. Noi abbiamo l’esempio […] di un grande artista come Balla il quale, poi, è stato costretto a far dei ritratti: in fondo, quello che faceva per se stesso era utopistico. Abbiamo anche un esempio attuale come De Chirico, il quale, effettivamente, ha fatto delle grandissime cose – forse è l’artista più attuale che c’è in questo secolo, più di Picasso, più di molti altri […]
Penso all'anno in cui tu hai dipinto «Comizio» e «Rivolta»: era il 1946. Una data indimenticabile per te e per tanti, che hanno creduto in certi ideali, senza ricorrere alle classificazioni care a molti storici d'oggi, diligenti nella ricerca dei « documenti », ma troppo spesso lontani dallo spirito necessario per interpretarli rettamente.
Allora tu avevi scelto con impetuosa spregiudicatezza l'avventura, assecondando la tua volontà di ribelle, che ti accomunava ai sodalizi più discordi, dal «Fronte nuovo delle arti» a «Forma I». Eri, come si diceva allora una «presenza» necessaria per rianimare con la ricchezza delle idee e delle contraddizioni i gruppi che si andavano formando, da Venezia a Roma, e che interpretavano in modi completamente diversi i problemi dell'avanguardia europea.
Si era ormai ben lontani dalla composita comunità di «Corrente»: si tentavano altre vie, dopo gli entusiasmi per «Guernica» e per lo stile picassiano culminante nella «Pesca notturna ad Antibes», e tu eri fra quelli che rischia-vano di più, amico di tutti, ma imperterrito nella ricerca anticonvenzionale, che impediva d'inquadrarti in un'unica direzione. Non si trattava, come qualcuno poteva supporre, di eclettismo, ma di curiosità inesauribile: la molla segreta del continuo peregrinare tra le infinite possibilità offerte alla tua fantasia dal fervore creativo di un momento storico, iniziato con Pollock e che assumeva gli aspetti tipici dell'americanismo dai mille volti.
Tu hai combattuto tutte le battaglie di allora ( per il « Fronte » e per l'astrattismo, poiché il dilemma non esisteva nella tua poetica d'indipendente). Così, dopo quasi trent'anni, la tua «fretta» ardimentosa appare sotto l'aspetto più autentico della passione, della partecipazione, dell'impegno, come elementi di un'esperienza persino ossessiva, impostata sull'estro, sulla improvvisazione geniale.
Ti rivedo com'eri, quando t'incontravo a tarda notte, mentre camminavi rasente i muri di Piazza di Spagna o di via del Babuino, col baschetto infilato sulla nuca e col volto pallido dagli occhi ardenti, seminascosto dal bavero alzato dell'impermeabile scuro. E ti piaceva parlare, parlare magari fino all'alba, seguendo il filo, noto a te solo, di un discorso fatto di pensieri improvvisi, che sembravano nascere da una fantastica scatola magica.
Ma perché ti scrivo, pensando al passato, rivedendoti sullo schermo della me-moria fedele, come se avessi davvero trent'anni di meno ? Non è certo per rimpiangere il nostro « tempo perduto » o per divagare, allontanando l'immagine di una realtà, che ormai non ci appartiene più, anche se l'abbiamo intensamente ( e talora, disperatamente) vissuta. Non so quando hai detto una frase che mi ha colpito e che è forse la ragione segreta della mia lettera, affidata al caso, il più sicuro dei postini, se dobbiamo credere ai messaggi chiusi nelle bottiglie, sempre arrivati a destinazione, in tanti libri d'avventure della letteratura romantica. La frase è questa: «Il mio gesto di colorire è tale e quale io sono e così io mi posso identificare nel quadro e gli altri si identificano in quello che ho espresso».
La molteplicità dei tuoi gesti, sempre rinnovati nel corso del tempo, rivela la impossibilità di fissarti, anche oggi, dentro uno schema, continuamente superato dal tuo slancio vitale. E allora ? La tua vita come la tua arte si definisce nella continuità di una visione dominata dal colore, inventato davvero « gioiosamente ». Non è questo, forse, il migliore degli elogi ? E non è forse, anche, una semplice verità ? Tuo, Giuseppe Marchiori
Giuseppe Marchiori, Lettera spedita a (e ricevuta da) Giulio Turcato in Giulio Turcato, catalogo mostra, 22 agosto - 20 settembre 1974, Circolo artistico Palazzo delle Prigioni Vecchie, Venezia, 1974
«La mia ricerca coloristica — ha scritto Turcato — è orientata verso un nuovo colore, partendo dal principio che il marrone e l'amaranto sono due colori al di fuori dello spettro». I colori di Turcato sono, infatti, sempre nuovi e con lo spettro han poco da vedere. Il colore è, di per sé, il «quadro». Né chiameremo in causa l'analisi fisica del colore, lo spettro solare, il «quadrante» di Delacroix, la teoria impressionista dei complementari o il fondamento sistematico dei Divisionisti. Il colore di Turcato, nella Pittura, è una scoperta quanto lo furono, nell'industria dei colori, quelle di un Thenard, di un Guimet o di un Vauquelin: provocatoria per la libertà d'uso di quell'amaranto o di quel blu e per la spregiudicatezza degli accostamenti che ne possono derivare. È, il suo, un colore — acceso o spento — inconfondibile: altissimo negli squilli, cupissimo nelle tinte ( e materie) assorbenti. Si accoppia all'altro colore — sia elementare o composto, caldo o freddo —come quando sull'orizzonte appaiono, in una, il fuoco del tramonto e il blu della notte: stanno insieme a perfezione e ognuno per suo conto; persino termini estremi — il massimo chiaro e il massimo scuro — si fondono più agevolmente dei termini estremi naturali, che sono il bianco e il nero.
Turcato non usa mai il bianco né il nero, né se ne sta dentro la stella convenzionale dello spettro. Come nelle vetrate gotiche, la luce passa liquida attraverso i suoi colori e da questi, così, naturalmente, si riflette sul campo della tela. Le radiazioni che compongono la luce stanno già, insomma, per un misterioso procedimento dell'intelletto e dell'occhio, nel colore prescelto. Quindi, è come se si depositassero sulla tela, riflettendo o assorbendo, facendo, cioè, avanzare il colore o allontanandolo. Turcato fa in modo globale quel che ogni grande colorista ha saputo fare nei secoli: modifica, varia, aggiusta, reinventa, esalta o appanna la qualità ottica di un colore. E fa sì che la luce penetri in esso fin nel fondo, in una terza dimensione ottica.
Di questa sua particolare disposizione al colore, Turcato stesso è stato il più dichiarato confessore. Nei suoi scritti, oltre che nelle sue opere, egli ha apertamente rivelato quanto percettive fossero, e sensibili, le qualità del suo occhio, quanto alto fosse il suo potere discriminatone per quella che i fisici chiamano la lunghezza d'onda. I critici, a loro volta, se ne sono resi interpreti da vari. angoli: «lussuose rosacee epidermidi» per Villa; «ciel hétérodoxe, réversible» per Murilo Mendes; «luminosità splendent » per Apollonio; «the persistent quietude» per Jasia Reichard; «fiction et rythme lyrique» per Zervos; «uno spazio carico d'emozione» per Lionello Venturi.
Ma la lettura più esplicita di questa esistenziale disposizione al colore sta nelle dichiarazioni semplici dello stesso Turcato. Vale la pena di rievocarne qualcuna: «Il colore, assieme al segno, è la parte principale della pittura» . «In questo momento mi pare si stiano sostituendo nuovi concetti sul colore, a quelli precedenti. Malgrado la corrente astratta, fino a poco tempo fa e date poche eccezioni, il concetto del colore era quello dettato dal Cubismo. Così avevamo ancora un atteggiamento sul colore. Per esempio, il periodo è triste o caotico, mi ribello di dipingere col colore, ma solo a bianco e nero o grigio. Così tutto si riduce a una funzione parziale anche se il pittore è molto dotato. C'è in tale modo un atteggiamento aprioristico. Con questo non dico che non si possa dipingere a bianco e nero. È il gesto di colorire in questo modo che riduce il fenomeno. In natura, effettivamente le cose vanno in modo molto più semplice ma» (si badi!) «più splendente. Per esempio, la gamma dei colori che la natura ha attribuito a un bruco o a un serpente non fa diventare questi animali più drammatici della balena o del pavone». . . . «Così, i colori del quadro sono in rapporto ai colori stessi. Quando l'opera sarà compiuta, il quadro impressionerà con i suoi attributi l'osservatore, ma non vi dovrebbe essere, per questo, contenuto drammatico costituito a indicare quale sarà l'effetto». Poi, saggiamente e lapalissianamente, conclude: «Il mio gesto di colorire è tale quale io sono e così io mi posso identificare nel quadro e gli altri si identificano in quello che ho espresso». Esattamente come accade.
* * *
Turcato non è uso a smentirsi. Oggi ripercorre, nella pienezza della maturità, la lunga carriera di pittore che è stata la sua vita, quasi celiando e tuttavia con meditazione sempre attenta. «Tutti sanno — scriveva nel 1958 Lionello Venturi — che Turcato è un pittore nato, che vive per dipingere e che sin dalla prima giovinezza non ha fatto altro che dipingere». Niente di questa attitudine è mutato oggi. La giornata operosa di Turcato passa da uno studio all'altro, dei molti che ha a Roma. È una giornata sempre fervida di nuove invenzioni, di pensieri che tornano da lontano, di illuminazioni, di repentine, singolari aperture: ora le «gommepiume» o le «oceaniche», ora i quadri o gli oggetti, ora le sculture — l'exploit più recente —, come il «trio» della Libertà incatenata ( nella quale ultima, chissà se sia da vedere un contenutistico riferimento ai veneziani Piombi dove se ne ha il battesimo, o non piuttosto il senso frenetico della scoperta che il benché minimo condizionamento naturale potrebbe, nello spirito ribelle dell'artista, mutilare... ).
Colore e Libertà. Non sarà questo il blasone giusto per Turcato? A dire che egli è veneziano ai Veneziani si rischia il cliché. Ma occorre pur ricordare che Giulio Turcato, nato a Mantova, s'educò interamente in laguna. E spesso vi torna, tanto più da che s'è scaricato il polo d'attrazione della romana Piazza del Popolo, piazza degli artisti per due generazioni. Alle quali, anche, Turcato è stato maestro, ma senza lezioni. Se però la sua vicenda si esaurisse davvero tra Venezia e Roma, l'orizzonte di un artista di così grande levatura potrebbe apparire perfino costretto. Invece esso s'apre su tutta la « condizione storica » della pittura, traendo ogni stimolo dalle vissute esperienze, in Oriente come in Occidente, a Bisanzio o in Egitto, nell'arco della civiltà mediterranea e ben oltre da esso, nel vecchio e nel nuovo mondo, nelle avanguardie storiche e nelle libertà espressive di un tempo meno remoto.
In gioventù, Turcato fu un nomade. Ha continuato ad esserlo con l'agio più sorprendente. Ad ogni ritorno, evidentemente aveva captato qualcosa d'altro. Perché ad ogni nuovo tempo egli rimugina su cose che ha viste e rilevate. Sono sempre le forme e i colori che identifichino quel qualcosa d'altro. Ma lo passano anche al filtro più personale e anticonformista che la cultura pittorica attuale possa annoverare. Allora, come sempre è stato, rizampilla l'invenzione ed è fresca e sorgiva. Nuovi colori, a cascate, sono là sulle pareti, emblemi di un'esistenza che gioiosamente si rinnova tuffandosi nella Storia, ma senza parere.
Giovanni Carandente, 'Il colore di Turcato' in Giulio Turcato, cat. mostra, 22 agosto - 20 settembre 1974, Circolo artistico Palazzo delle Prigioni Vecchie, Venezia, 1974
Nelle opere di Turcato, dal 45 ad oggi, costante è la componente tecnica, giocata o sperimentata fino alla disponibilità e all'irriverenza più radicali. Dice l'artista: « in linea di massima io dipingo per modificare il gusto della gente anche in senso avveniristico ». L'avvenirismo è il rovescio della medaglia dell'utopia, quindi quella componente tecnica è sempre alogica, non appartiene ad una poetica precisa. Essa è, forse, un « itinerarium » senza un principio dichiarato e senza una meta sicura. Ma, un'automatica trascrizione del reale come quella di Turcato, concentra su se stessa, al fine di disorientare lo spettatore da facili suggestioni accattivanti, tutte le rarefazioni e densità cromatiche, i sottintesi confronti o contrasti linguistici, le illusioni o allusioni di ogni genesi espressiva. La componente tecnica offre, a Turcato, un'affascinante disponibilità a ricominciare, ogni volta, da capo. Emilio Villa la chiama « originario parametro della modestia umana e dell'orgoglio interiore »; Giorgio De Marchis, « perpetua giovinezza di un Adamo che nei limiti miserabili dell'esistenza continua a commettere il peccato originale ».
Turcato — da quando scelse una nuova estetica in contrapposizione alla strategia politica (quella indicata da Togliatti e contestata da Vittorini) — ha sviluppato impegni visuali diversi. Però la sua autonomia intellettuale ha sempre avuto, come obiettivo, la società. Perciò definirei del nuovo impegno estetico persino le sue opere (« Rivolta », « Miniere », « Uomini che scappano ») del cosiddetto « periodo politico ». In esse si avverte, nell'impronta rapida del colore a tempera oppure ad olio, un'insoddisfazione (innocente) verso un linguaggio espressivo ormai dato. Rapida e precisa, la pennellata di colore sfiora il supporto della tela o del foglio di carta, incide l'immagine lasciandola come sospesa nello spazio: sia nel movimento che nella stasi. Nelle « Rovine di Varsavia », carcasse di edifici sventrati, i sinistri profili denotano un senso di smarrimento. Le rovine di guerra sono l'erronea immagine di un'architettura diversa, mentre le « Demolizioni » di Mafai mettono a nudo uno sradicamento formale che non ha nulla di realistico. Turcato ha trattato i problemi sociali — scriveva Lionello Venturi — in « forme astratte », distruggendo ogni loro « efficacia propagandistica e cioè in un modo eretico ». Con i « Comizi » il nuovo impegno estetico di Turcato è già una manifestazione del suo particolare esistenzialismo, certo favorito dall'esperienza « formalistica » di « Forma Uno », la « nuova sinistra » artistica italiana del dopoguerra. I problemi sociali, per Turcato, vanno affrontati con l'ottica o l'impronta della vita quotidiana, non possono essere risolti in modo univoco. La varietà è principio di vita, acutizza la sensibilità, reagisce all'incombente alienazione. Come vedremo, la varietà del lavoro di Turcato saprà anche lacerare silenzi occasionali, ozi intellettuali, ambigui sodalizi culturali, e introdurrà (folle saggezza) una ventata di innocente comunicabilità proprio nel momento in cui l'informale, attraverso alcune sue poetiche, manifestava l'« incomunicabilità Le bandierine rosse, il formicolio segnico, appena accennato della folla (figurativamente inesistente), fanno dei « Comizi » uno dei più alti esempi di « astrazione » degli anni '50. Il colore è piatto (quasi stampato), la prospettiva, ribaltata in avanti, avvicina la visione al limite del quadro, il quale, sconfinando, non ha più un sopra e un sotto: forse capovolgendolo non perderebbe nulla. L'astrazione non è di marca post-cubista, ma sembra trarre origine dall'universo dì Balla. Così essa è scevra da ogni suggestione propagandistica, per cui segna il momento più responsabile di Turcato di fronte alla libertà (senza drammi) dell'arte.
L'arte è stile, egli dice; ma lo stile non è una merce di scambio (con la storia): il baratto creerebbe « posizioni caotiche » e « seri equivoci ». Amante delle tecniche (anche se professa che, in fin dei conti, sono tutte eguali) Turcato, affrontando l'astrazione, ha sempre fatto dell'ironia: tanto che, con gli anni, è diventata il marchio del suo modus vivendi. Se l'astrazione è un « disordine inventato », le tecniche sono l'occasione e, al tempo stesso, il sostentamento per quella illogicità interiore. L'arabesco cromatico che vediamo nel « Deserto dei Tartari » e nei « Reticoli » è il primo esempio in cui Turcato dichiara quanto il « disordine inventato » (senza il sostentamento della geometria) e l'occasione tecnica siano atemporali, appartengano ad un continuum fluttuante. L'astrazione germina dai colori e dagli stessi colori viene come risucchiata attraverso vortici inestinguibili di ritmi ampi. I colori sono pura « pittura » e la superficie è un campo di forze tra loro continuamente in contrasto. « In Turcato — scrive Nello Ponente — la forma si pone come invenzione assoluta, cioè autonoma, non astratta da un'apparenza del reale ». Nel contrasto profondo delle campiture pittoriche affiorano già quelli che saranno gli « arcipelaghi », la cui materia grumosa pare essersi prosciugata in tempi diversi.
In questo periodo (siamo nel '56) dire che Turcato abbia sperimentato una tecnica pittorica informale è inesatto. Egli non doveva risolvere problemi legati alla non-figurazione, la sua inquietudine era di tutt'altra natura. Con l'opera « Gli insetti dell'epidemia », di qualche anno prima, Turcato aveva provato (chi più di lui, dopo l'eretico Licini, poteva essere il designato!) l'esplorazione surrealista, divagando con quei segni ricciuti e quelle forme spiritate, in uno spazio senza confini: dove bene e male convivono come le parole nel vocabolario. Così se gli « insetti » segnano il primo passo verso la fantasia (tutta mironiana), i « Giardini di Miciurin » sono la fonte di tutta l'astrazione di Turcato. Gli uni e gli altri sono contemporanei, profondamente diversa è la loro tecnica: segnica negli « insetti », pittorica nei « giardini ». Questo è, dunque, il momento in cui Turcato sperimenta tecniche diverse. Nel « Ricordo di S. Rocco » compaiono, sia pure nel colore, le impronte di cose reali: le banconote; segno che l'occasione pittorica non è fine a se stessa, ma proviene da una precisa motivazione. E la motivazione, cui Turcato spesso farà ricorso, ha sempre un'origine sociologica. Operando entro la propria autonomia intellettuale e artistica Turcato ha additato (certo non da moralista) le nausee sociali, ad esempio il modo in cui viene « viziata » la sensibilità. Così il « Ricordo di S. Rocco » altro non è se non gigantesco idolo-denaro, che fa leva sulla ignoranza popolare. Per intimorire la società Turcato allora dipinge gli « Uomini che scappano »; e la critica ufficiale lo accusa di « smarrimento » (chiara allusione alla sua ribellione). Ma qui Turcato dimostra dì essere un critico tanto sensibile quanto irriverente. Solo, affronta l'arte armato soltanto delle sue paure e dei suoi entusiasmi, dando persino l'illusione di annegare nell'universo quotidiano. Dice Turcato: « Il mondo di oggi è un mondo che scappa », sempre in agitazione. Perciò affronta, questo sì con lucida aggressività, il mondo morente delle tecniche artistiche. Di esse Burri ha fatto tabula rasa e Fontana dei « concetti spaziali Ma Turcato, che s'è trovato, all'improvviso vicino a Masson, non ama il tragico quotidiano, il rigore mentale, anzi li rifiuta. Così in un altro « Lenzuolo di S. Rocco » con fondo sabbiato, collages di carte e banconote, contrappone al magma esistenziale la sua ironia, ferma e autonoma.
Turcato artista anomalo; verso chi e che cosa? « l colori del quadro sono in rapporto ai colori stessi », afferma Turcato. Così le extra-sensazioni, che crediamo di ricevere guardando l'universo pittorico dei suoi « deserti » e « reticoli », sono soltanto dei romanticismi momentanei o d'occasione. Diceva Matisse: « Quand ie mets un vert, ça ne veut pas dire de l'herbe; quand je met un bleu, ça ne veut pas dire du ciel ». Dunque il colore è colore, come l'arte è arte. Il colore vive anche senza un suo preciso riferimento con un oggetto. Dice ancora Turcato: si può usare il colore « senza cadere in tesi letterarie ». Ecco il problema pittorico di fondo di Turcato. Se nel .« Deserto dei Tartari » e nelle « Composizioni » si poneva in termini cromatici, nelle opere attorno agli anni '60 (« Le cavallette », « Ritrovamenti La bava », i « Tranquillanti ») esso compare intrinseco alla materia. Ma la sua materia pittorica non ha lo splendore della « bella materia » di Fautrier, l'astrazione cosmica di Fontana; è piuttosto umile, fangosa e come inchiodata al suolo. L'unico elemento che la rende mobile è il gioco delle articolazioni e dei dislivelli, vere e proprie « topografie » di terre mai esplorate. Assieme ai colori, Turcato impasta la sabbia e il vinavil, per fare della superficie un'estensione unica: sensibile solo alla grazia morbosa della luce. Infatti, nella materia, la luce penetra vistosamente fino a renderla rarefatta; e la superficie del quadro « è come una seta preziosa, tutta di un colore, ma così sensibile alla luce che la minima ondulazione o increspatura la fa rabbrividire tutta » (G.C. Argan). In tal senso « Astronomica » costituisce, con il suo abbagliante variegare del segno opaco, un esempio di luminosità fatta di « apparizioni » improvvise.
In tal senso si è giunti al più alto valore sociologico di Turcato negli anni '60. Opere come « Il lenzuolo di S. Rocco », « La bava », « l tranquillanti » e la « Pelle » appartengono, pur nella diversità delle loro tecniche, ad un unico problema: il collasso degli stili. Nel '60 Turcato lo diagnosticava così: « Il ventino, la carta moneta e altri oggetti di origine corrente e di uso casuale appiccicati a una tavola o ad una tela non rappresentano soltanto un'epoca passata, ma, immediatamente attuale ». Il destino cui le cose ineluttabilmente vanno incontro è quello di essere continuamente rigenerate; i dadaisti se ne accorsero mentre le distruggevano. E di questa distruzione l'« oggetto surrealista » rappresenta la sua beatificazione. Per Turcato il collasso degli stili coincide con il collasso dei valori. La fede tradita sono le lire incollate sul « Lenzuolo di S. Rocco », i collages con dollari rappresentano il potere decaduto; un rigetto ribelle è Io sputo sabbioso della bava; una metafora psicanalitica significano i tranquillanti; le pelli evocano ricordi mostruosi. Ma, per Turcato, rimpiangere o evocare i valori estinti e rimproverare l'abuso del consumismo non serve a nulla; anche perché se sono evocati o rimpianti e rimproverati da tutti, vuoi dire che essi sono dei fatti esistenti per davvero. Per esempio, dato che tutti fanno uso di tranquillanti, tanto vale di farne un quadro.
Così in Turcato l'oggetto-consumo della vita quotidiana e il valore-estinto sono sempre visti in rapporto al loro smisurato abuso. Naturalmente, con queste operazioni metaforiche e di prelievo, Turcato non intende proporre dei modelli di surrealtà. E' troppo astuto-saggio-umile (non va dimenticato che egli è stato in Cina) per lasciarsi affascinare dall'universo sotterraneo dell'inconscio. Per immaginare non ha bisogno del sogno, valga per tutto l'esempio dal quale sono nate le « pelli ». « L'episodio — scrive Villa (che presentò le opere alla Galleria « La Tartaruga » nel '64) — accade fra un treno e un altro, una notte, nella stazione fuligginosa di Charleroi, dove si potrebbe sceneggiare una descensio ad inferos. Gli oblò baluginanti dei treni lasciarono trapelare lussuose rosacee epidermidi di ninfe internazionali che scivolavano all'interno dello sleeping, povere anime ». Così, dalla esperienza vissuta, sono nati i « Ricordi di New York », opere piene di luce e colore dominate dal collage splendente. Se le « pelli » non hanno i caratteri formali del collage classico (ne tantomeno del decollage di Rotella), le « Superfici lunari » non appartengono allo spazialismo di Fontana. Turcato, del cosmo, ha una idea alquanto originale. « La via Lattea— dice —, che prima rappresentava un mito ', ora è diventata per lo meno un oggetto fotografabile e appartiene già alla statica astronomica ». Le « Superfici lunari » sono in gommapiuma, un materiale corposo ma senza peso. Turcato l'ha usato perché — afferma — « il suo crostone scabroso è pieno di avvertimenti nuovi e di meraviglia ». Insomma ciò che vediamo in cielo può essere ricreato in terra. Da qui la sensazione « cosmica » che proviamo guardando le « Superfici lunari ». A renderla ancora più credibile agli occhi concorrono i colori « fuori » dello spettro. Il senso « cosmico » della luce e dei colori è presente anche nei fosforescenti », opere in cui la superficie vive in virtù delle radiazioni luminose e coloristiche presenti nella stessa materia pittorica. Mutando l'intensità della luce e del colore, la superficie cambia ogni volta i suoi connotati formali. Tutto è meraviglia e stupore, come in un « trompe-l'oeil ».
Unanime la critica ha affermato che Turcato è pittore nato, quindi per un pittore il colore è principio di ogni visione. « Il mio gesto di colorire — precisa l'artista — è tale quale io sono e così io mi posso identificare nel quadro e gli altri si identificano in quello che ho espresso ». Chiarissimo. Ma Turcato, quando dipinge, come del resto ha sempre fatto ingannando chiunque cerchi nel suo lavoro un filo logico, non esprime contenuti soggettivi. La sua pittura è sempre « non-oggettiva » (alla maniera, se vogliamo, di Ellsworth Kelly); vuol « esplorare l'ambiguità dello spazio, sapere che il momento è dinamico e il gesto è statico » (Maurizio Fagiolo). Nella « Porta d'Egitto » o nel « Pronunciamento », del '64, egli accosta colori con tali impercettibili sequenze (specie nella Porta), che la loro splendente luminosità « sfonda », come in un « trompe-l'oeil », la superficie pittorica. Mentre in altre occasioni, per esempio nelle « Composizioni » del '66, abbassa i toni cromatici: per cui la superficie pittorica « affonda » in ombre colorate, ma pur sempre ombre. L'obiettivo sembra quello di corrompere i limiti di una « spazialità infinita »: è quanto accade nell'opera « Fuori dello spettro » del '62. Qui la qualità ottica dei colori — appunto fuori dello spettro (amaranto, marrone, indaco) — si modifica, nella luce, continuamente. Ma, nella teoria di quadri « Oltre lo spettro » del '71, la « spazialità infinita » dei colori vivrà soltanto di se stessa, di « pittura-pittura ». Così Giovanni Carandente, analizzando i « colori » di Turcato, potrà vedere che la « luce passa liquida attraverso ì colori », i quali si riflettono, naturalmente, sul campo della tela.
I movimenti artistici attuali — scrive Turcato — sono disponibili per « un'avventura più libera » e per « una diagnosi più approfondita ». Da questo pensiero vediamo prendere forma le « macchinette » del '64, i « Busti di S. Caterina », le « Spine di Cristo », le « Oceaniche », le « Porte », le « casse » antropomorfiche e le « Libertà incatenate » recenti. Questi « oggetti » sono l'altra faccia della sperimentazione dell'artista. Così come li vediamo (senza entrare nelle vicende « personali » da cui provengono), hanno tutto l'aspetto di essere in maschera; ma se, con l'immaginazione, li solleviamo un tantino da terra, allora mostreranno il loro vero profilo: tanto ironico quanto dolente. Perché quando Turcato svela il gioco della sua sottile ironia, vuoi dire che la sua fulminea sensibilità è stata offesa. Così le « macchinette » simboleggiano ambiziosi traguardi, forse gli stessi che volevano raggiungere gli « Uomini che scappano »; il « busto » tagliato suggerisce un senso di sollievo indecifrabile; le « spine » invitano a liberare la forma dal doloroso intreccio; le « oceaniche » sono degli insaziabili flussi di forme-colore deliranti nello spazio; le « porte », forse, introducono verso delizie di luoghi nascosti; le « casse », con quei loro seni all'interno, sembrano dei reperti archeologici; infine « le libertà », riannodate tra loro con fili aerei, ripropongono in modo nuovo l'idea di uno spazio violato e instabile, in cui lo stesso « insieme » delle immagini policrome suggerisce una dimensione irreale. Forse sono tutte metafore: ma di questa Turcato sembra non farne alcun mistero, anche perché le metafore accompagnano ogni suo comportamento quotidiano. Tanto domani tutto potrebbe, anzi può, essere capovolto proprio in virtù di quella immoralistica disponibilità a ricominciare da ccapo.
Italo Mussa, 'Fuori della tecnica: l' 'immoralismo' di Turcato' in Giulio Turcato, Palazzo delle Esposizioni, Roma Via Nazionale, 14 Nov. 31 - Dic 1974, pp. 19 - 24.
Nei numerosi testi critici scritti sull'opera trentennale di Giulio Turcato quasi sempre è' richiamata la figura dell'artista coi suoi modi di vivere e di lavorare, e qualche volta lo si dipinge come « personaggio » per troppa affettuosa familiarità. Soltanto evocando l'autore sembra possibile buttar luce sulla sua opera. È un fatto strano ma significativo. Strano perché Turcato, nonostante i crescenti amorosi apprezzamenti che lo circondano come artista e come uomo, resta il meno familiare degli artisti astratti italiani del dopoguerra; amato, ma non giusta-mente valutato ancora nella sua peculiarità storica. Significativo iÌ fatto lo è per Turcato e per tutti i pittori come lui che in sostanza identificano l'opera con l'artista non potendo identificarla con il mondo esterno, come vorrebbero; molti altri, illusoriamente, pretendono di non separare l'arte dalla vita; lui è semmai di quelli per cui, come ha detto un più giovane scultore americano altrettanto impegnato socialmente, « la vita non è che un anello tra l'arte e la politica ».
Hai messo troppa carne al fuoco... l'arte, la vita, la politica... Turcato come vi si muove, spiegati meglio.
Guarda che anche lui non scherza: sembra semplice, ma è invece un pittore complesso. Turcato non ha principio -e non ha fine, oppure ne ha molti, il che richiede che si tiri un filo senza dimenticare gli altri. Si potrebbe cominciare dal colore, tutti pescano da lì, perché lui, in fatto di colori, è un oceano nell'alba boreale... che straordinario colorista è Turcato!... certo che lo è, ma mica puoi ridurlo al suo oceano, lui sui colori ci viaggia, e vorrei capire dove va... Ridurre Turcato a genio colorista equivarrebbe a dire che Marconi era un genio degli aquiloni poiché si occupava di onde hertziane, invece ha inventato, oltre al telegrafo senza fili, anche la radio... Eppoi osserva le stranezze temporali che legano le opere esposte in questa mostra al Nuovo Sagittario a Milano, e che intreccia-no anzi l'intera mappa della sua opera dal 1940 a oggi, come si poteva ancor meglio rilevare lungo le sale della sua recente grande esposizione, al Palazzo delle Esposizioni a Roma, ma è stato rilevato?... dico, il suo senso ciclico del tempo. In questa mostra trovi splendide superfici di luce degli inizi anni '50 che sembrano dipinte oggi e rimandano a quadri recenti; vedi gli ultimissimi vivacissimi tondi tra il segno e l'ideogramma che riprendono gli spunti « cinesi » del '56, e così via. Nessuno ha mai parlato dell'esperienza del tempo nell'arte di Turcato, eppure è così inusitata, co-si diversa, che la diresti fondamentale.
Allora, ricapitolando, premetto che la pittura di Turcato richiede di essere discussa in relazione alla storia tutta dell'astrattismo e non di qualche suo dettaglio formale, se c'interessa afferrarne la vera sostanza e non soltanto «degustar-la». Tanto più oggi in cui la storia dell'arte moderna e in particolare il suo subcontinente «astrattista» sono investiti da crisi e riesami profondi. lo credo che Turcato possa riorientarci. Un esempio, per cominciare, che è poi una banale metafora. La storia ha i suoi alti e i suoi bassi come un volo il suo apogeo e perigeo. Mondrian o Pollock, mettiamo, hanno stabilito dei nuovi apogei, i geni volano solo alto, son fatti così... dei bassi della storia non ci occupiamo mai, sebbene siano quotidiani, per questo il senso della storia ci sfugge così spesso... Ecco, Turcato è uno dei pochi che va dall'apogeo al perigeo e viceversa — e lo dà a vedere, questo è, il colmo. Anche Pollock o Malevic, poniamo ancora, hanno visto il fondo fino a morirne, ma non l'hanno accettato o non lo hanno dato a vedere. Chi gira l'intero giro della ruota della storia, come Turcato, è più paziente perché è più vicino alla verità, ma anche più infelice perché non avanza. Ora, come tu sai, stanno ancora tutti correndo...
Racconta, cosa c'è che non va più nella storia dell'arte moderna o, come dici tu, nel subcontinente dell'astrazione.
Astrattismo, prego. L'astrazione è propria del pensiero, balia del linguaggio, mentre qui si tratta di un tratto di cammino della storia di questo secolo che si chiama appunto arte astratta, e che ha infinite facce, da Mondrian ai concettuali, direi, ben oltre la vecchia contrapposizione tra astratti e figurativi... Così come si è storicamente costituita dall'inizio del secolo, l'arte astratta ha sancito una grande rivoluzione che non si è mai liberata però di alcune tare controrivoluzionarie. Schematizzerei così. Invece di rappresentare illusivamente i fenomeni del mondo esterno quali si vedono, l'astrattismo ha sancito la necessità di presentare nel modo più diretto possibile, in varie direzioni, la realtà, compresa la realtà della pittura, quale si sa attraverso la mente e lo spirito. È stata la definitiva irruzione del linguaggio particolare a ciascun individuo nei co-dici della comunicazione, quindi l'irruzione dell'io, dunque un viaggio negli spazi interiori... A ogni uomo il suo linguaggio, a ogni linguaggio una pittura diversa... Cominciano le difficoltà. Come in una irrefrenabile corsa agli ostacoli, l'astrattismo, in ogni suo protagonista che conta, ha ricercato delle barriere da abbattere e le ha troppo spesso trovate sul terreno tecnico-operativo, in termini formali di sviluppo visivo: l'uno costruisce i quadrati e l'altro osa i triangoli e le diagonali, l'uno canta i ritmi cromatici e l'altro simboleggia le energie del cosmo, l'uno tocca il fondo d'una direttrice di-pingendo un quadrato bianco sul bianco e l'altro dimostra che si può invece modulare il quadrato all'infinito e senza ripetizione, l'uno oltre-passa la tela con un buco e l'altro la sostituisce addirittura con un sacco... Un'epopea meravigliosa se noi potessimo concepire tutte le pitture di tutti gli astratti come un'unica tela a cui ognuno ha portato la propria soggettività. Invece la soggettività, impulso al viaggio tra l'inconscio e gli ostacoli alla conoscenza, si è impigliata nella com-petizione dell'individualismo che in nome del progresso porta a parcellizzare le espressioni diversificate di ognuno. L'individualismo ha battuto la soggettività. Ora, ciascun soggetto si sviluppa rispetto a se stesso, non evolve rispetto ad un altro soggetto; da qui l'errore di chi ha preteso che il suo quadro fosse un teatro dell'io un po' più evoluto del teatro dell'altro. Da qui anche l'attuale severa critica cui sono sottoposte le nozioni di avanguardia, di progresso in arte, di sviluppo nella ricerca e nella sperimentazione estetica. Il problema, oggi, sta diversamente... Esemplifico: il surrealismo ha inteso scendere negli spazi interiori dell'inconscio più d'ogni altra forma d'arte moderna, ma avvalendosi dell'impianto tradizionale della pittura coi suoi simboli espliciti, e magari inventando l'arte degli oggetti; ha usato codici già conosciuti per meglio occuparsi dello sconosciuto che fa l'incommensurabile complessità del soggetto. L'astrattismo non si è concesso alcuna facilitazione, ha voluto costruire nuovi codici, ma nella contraddizione che c'è e che resta irrisolta tra i processi di simbolizzazioni del soggetto e gli sviluppi formali del linguaggio del tempo. Bisogna riunire questi due poli.
Non che abbia capito molto, ma per tornare al nostro pittore. vuoi forse dire che Turcato ha risolto questa contraddizione?
Sì. Ma tieni conto che per ogni contraddizione superata se ne aprono altre. Turcato più di altri ha saputo identificare la complessità del suo « io » nell'indeterminata circolarità della pittura. Notava Carandente che lui fa accadere esattamente quel che è scritto in uno dei suoi molti rapsodici scritti: « Il mio gesto di colorire è tale quale io sono e così io mi posso identificare nel quadro e gli altri si identificano in quello che ho espresso ». Identificazione col quadro, non con una parte di esso: il colore, o il segno, o la forma, o il superamento del quadro... Ecco perché i suoi interpreti evocano sempre la figura di Turcato davanti alla sua opera, vi sono costretti... Ogni suo quadro od oggetto o scultura è una carta d'identità di Turcato, ma non per quella polizia di frontiera che sono gli storici e i critici. Grandi artisti hanno passato importanti frontiere... diciamo, Burri e Fontana... ma la gente tende a identificarli col loro passaporto: lui è quello dei sacchi, lui è quello dei buchi; come si fa a ridurgli così i vasti orizzonti? Di Turcato si può solo dire che lui è quello della pittura, la cui esperienza non ha barriere né corridoi da seguire, né tragici passi della Be-resina da valicare, né mete conquistate una volta per tutte. Al centro c'è il soggetto, e attorno gira circolarmente la pittura: l'ha addomesticata così.
Semplicemente dimentiche le sue battaglie ideali. Nel '47 partecipa alla redazione del manifesto di « Forma I », nel '49 s'impegna politicamente nel Nuovo Fronte delle Arti, nel '50 fa parte di un altro gruppo che si batte per l'avanguardia. ha lottato per sviluppare nuove Idee, ha detto di ricercare una nuova forma, ha dato dimensioni all'uso del colore e del segno, ha anticipato alcune tendenze, sperimentato ogni sorta di collage e superfici... E tu osi dire che Turcato non si sarebbe dibattuto nel fiume della storia, un po' controcorrente e un po' trascinato, come tanti?
Sì, a costo di sbagliare. Il modo di partecipare alla storia da parte di Mondrian fino a Kosuth è linearmente evolutivo, singolarizzato, avanguardistico, e si scontra contro le barriere frapposte alla conoscenza. Ma nota: non è stato questo il modo di Malevic, i cui ritratti simbolisti di signori e margravi degli ultimi anni della sua vita spiazzano il glorioso estremismo del suo « suprematismo », né il modo di Pollock, che all'ultimo voleva uscire dal groviglio informale verso la figurazione... L'astrattismo ho innumerevoli capovolgimenti di cui non capiamo ancora le ragioni. E comunque, il modo di Turcato di partecipare alla storia è circolarmente ripetitivo, generalizzato, non succu-be della contrapposizione tra avanguardia e tradizione; non si scontra con una barriera dato che poi dietro ce ne sarà sempre un'altra; le aggira l'una dopo l'altra, e per far questo non bisogna prendersi per una chiave che ha aperto una sola serratura. E poiché appunto sull'opera Turcato aleggia il sospetto (i critici vanno capiti per quel che tacciono e non per quel che dicono) che non abbia aperto serrature, fatto buchi, e oltrepassato il muro del suono, allora dico: meno male, lì è la sua diversità e la sua importanza.
Ma insomma deciditi a definire la sua diversità rispetto a chi e a che cosa, poi.
Turcato dipinge e pensa in modo tale che ci obbliga proprio a rivedere quel che crediamo di sapere della storia contemporanea e che non basta più nei suoi confronti e nei confronti di altre esperienze. Non credere che stia qui a cantare oh! quanto è diverso dagli altri geni dell'arte: per poco che siano artisti, son proprio tutti diversi... Piuttosto dico che l'insieme della pittura di Turcato sposta le grosse linee della nostra comprensione dell'insieme storico delle altre pitture. Se questo ha qualche importanza.
Affermi che Turcato non può essere riducibile a grande colorista e che i suoi colori sono solo un mezzo, perché?
Perché il colore di Turcato è sempre fuori misura e regola. Turcato fa un uso reale del colore, e un uso metaforico. Una volta ha scritto che il colore, assieme al segno, è la parte principale della pittura: ma solo nella misura in cui fuoriesce da ogni canone, e ciò avviene nei suoi quadri. L'uso reale è quello della presenza fisica, energetica, del colore che spregiudicatamente affascina ed inquieta, attira e sconvolge. L'uso metaforico sta nel com-portamento, con cui Turcato gioca il colore come sinonimo di massi-ma libertà. Per lui è un tema provocatorio, concordo con Carandente. Curiosa, questa sua affermazione: « La mia ricerca coloristica è orientata verso un nuovo colore, partendo dal principio che il marrone e l'amaranto sono due colori al di fuori dello spettro». È vero e non è vero. Non sono tra i colori costitutivi dello spettro, eppure emanano dallo spettro che contiene tutte le potenzialità del colore, mica vengono dallo spirito santo... Se omogeneizzate lo spettro viene fuori il bianco, se fate le opportune alchimìe e misture otterrete anche il marrone e l'amaranto... Eppoi, Turcato usa ben altri colori che questi, li distilla praticamente tutti.., roba da drogarsi! Se non si attiene al rosso al giallo al blu secondo le regole, preferendo toni e luci che vanno dall'equatoriale al boreale, è perché adora essere libero e provocatorio, per amore di una laica alchimia... non già un ingegnere concreto dei meccanismi cromatici.
Turcato è raffinato e « bricoleur » insieme. Lavora sulla superficie del quadro disteso orizzontalmente all'altezza delle sue mani. Vedi la differenza con Pollock che si piegava girando attorno alla tela distesa per terra, pertanto rifletteva il cielo come i disegni indiani sulla sabbia a cui l'artista si richiamava; e difatti la tela si riempiva di grovigli cosmici, copiava il cielo, ma restava uno specchio, e il cielo restava lontano... Il quadro di Turcato accumula solo l'energia che corre dalla mente alle mani di Turcato, e tra lui e i materiali che usa da tutte le latitudini. Se qualcosa rispecchia, è solo la coazione di dipingere e creare che, mi dicono, invade Turcato ovunque si trovi (eccomi anch'io a sviolinare sul « personaggio »)... Teniamoci ai fatti. L'estrema facilità e felicità con cui questi opera estremizza il colore (naturale, fosforescente, sempre ad alta temperatura verso l'alto o verso il basso) e si familiarizza con diversi tipi di superfici (tela, plastica, carta e legno) e ne trae immagini metaforicamente «esotiche» (superfici lunari, collages con monete, visi di sabbia, sagome oceaniche, campiture paesaggistiche, per non ricordare la notevole serie di spazi ambientali ed oggetti), tutto ciò testimonia una concreta esperienza di libertà. Colorare per Turcato vuoi dire agire per farci reagire: oltre che lui, la finalità della sua arte riguarda noi.
È vero che l'esperienza del tempo ha in lui tratti molto peculiari e una funzione importante?
Sì. Turcato dipinge per serie tematiche, ogni ciclo di opere naturalmente muta e scivola così mutata nel ciclo successivo, finché a di-stanza di anni una serie di lavori simile a una precedente ritorna in una nuova combinazione di temi ed idee. Non credo di conoscere un solo altro pittore astratto che abbia avuto altrettanta sicurezza nella sua arte, sì da sottrarla ai giudizi del mondo che vuole da un maestro lo stesso quadro immutabile o delle prove sempre diverse, e dunque farla crescere nella sua identità invece, come purtroppo succede a molti, di doverla alienare dalle sue più profonde ragioni. Manco a volerlo, Turcato riuscirebbe a fare un quadro uguale ad un altro; ma l'uno dopo l'altro si fondono tra loro in modo che nessuna delle vie potenzialmente aperte da un ciclo o da un tema, resti inesplorata. Prima o poi, il ritorno ciclico (la ripetizione nella differenza) conferma la verità di un'intuizione o la corregge. Questa peculiare attitudine di Turcato costituisce una sensibile trasgressione alle regole di molta storia contemporanea, dove si tende a procedere per rotture e superamenti continui, timorosi di guardare nuovamente indietro. La solidità centrale del soggetto che s'identifica con il quadro, con i quadri che s'avvicendano nel tempo, permette a Giulio Turcato di concepire la sua avventura creativa e la storia che la raccoglie con grande equilibrio. La visibilità dei suoi quadri è così intrigante e carica di sfida che, per osservarli, si è portati a retrocedere. Così sono retrocesso anch'io in queste vaste e forse troppo generali considerazioni: alla ricerca di punti di osservazioni nuovi per final-mente porsi a guardare gli inafferrabili quadri di Turcato.
Tommaso Trini, ‘Perché la pittura di Turcato è importante’, catalogo mostra, Galleria Nuovo Sagittario, Milano, 1975.
L'itinerario artistico di Giulio Turcato, sin dai suoi esordi, si precisa nella propria autonomia ed originalità, refrattario a qualsiasi suggestione culturale riferibile alla ricerca artistica di quegli anni in nome di una libertà da qualsiasi passato sempre avvertito come «ricatto». Si colloca lontano persino dalle suggestioni del futurismo o del neoplasticismo che avranno invece importanza per i suoi compagni di lavoro dell'esperienza di «Forma 1» attorno al '47. Si veda la citazione come polemico confronto, in «Fabbrica» del '49, dei caffé Aubette di Van Doesburg, nella parte alta della composizione, contrapposta con la sua spazialità intellettuale a quella più reale, più vitalistica, più disumana ma più vera in cui sì muovono i personaggi. Il colore dato come estensione pacata, il trattamento della superficie pittorica per campi separati intersecantesi in un complicato gioco a puzzle, la compenetrazione tra zone cromatiche diverse cui guarderanno poi altri artisti, con una rottura di equilibri quasi per intervento di una leggera scossa che tutto scompagina, ma senza comprometterne la struttura originaria, infine l'uso di elementi vuoti, piccole zone di colore diverso, che sconvolgono l'assunto precedente per stabilire equilibri nuovi tra i colori, sono gli elementi costitutivi del suo linguaggio sulla via di una ricerca che, abbandonato il vincolo della figurazione, va verso l'astrazione senza le preoccupazioni speculativo-filosofiche dell'astratto-concreto. Ed è proprio nella fase successiva, del cosiddetto periodo politico, quando infuria la battaglia Togliatti-Vittorini, che la risposta di Turcato ritrova, agganciandosi ad alcune proposte delle avanguardie storiche russe, di cui riprende certi accorgimenti di resa formale quali il ribaltamento in avanti e lo straniamento tra le parti componenti, una carica ideologica impensabile all'interno di un lavoro che non fosse di stretta osservanza politica. Per un artista che non si pone mai alcun vincolo, con «l'immoralità» dell'aver tutto provato, il filo da seguire nella lettura non può essere certo cronologico, in quanto la sua ricerca procede per tappe autonome, con un ritmo sincopato che non ammette un punto di arrivo e uno di partenza, ma solo rizomatici percorsi di ricerca. All'interno di questi sono possibili per l'artista le più incredibili variazioni sul tema sino a giungere ad un «banchetto della nausea», in cui si ripropongono, riprese dal minimo al macroscopico, sia le ossessioni di una fantasia curiosa che tutto vuoi possedere, sia i miti. Ma questi vengono ormai banalizzati e ridotti a puri divertimenti, resi innocui e destinati a diventare materiale da elaborare, da rendere momento estetico, attraverso ironici interventi deformanti, senza la chiave ermetica e spiazzante della ricerca dada, ma con procedimenti elementari, quasi infantili, con gli occhi divertiti di un bambino.
Tutte le strutture che Turcato ha «dipinto» e insisto su questo atto, su questo uniformare alla volontà dell'artista oggetti che impropriamente potrebbero definirsi sculture, per il loro modo di invadere lo spazio, fino alle «Oceaniche» miti-ossessioni femminili o alle «Libertà incatenate», nel loro proporre facili slittamenti di senso, nel loro far uso di metafore così evidenti ci indicano la perseguita felicità e praticità nel lavoro di un artista come
Turcato. Egli, eliminando ogni discriminante tecnica ed esecutiva, affida al fare, magari portato fino agli eccessi, il senso di una rimeditazione, di una correzione di tiro sulle sue acquisizioni precedenti. Questo suo toccare per far diventare pittura, trasformando e impreziosendo come Mida ogni cosa, quest'aspirazione ad un ideale e totalizzante universo pittorico si era precisato già nelle opere tra gli anni '50 e '60. I caratteri essenziali erano allora le ritmate scansioni che opponevano al ritmo il vibrato e luministico valore delle parti a strappo ideale ma sempre collimanti, ora i segni-ideogrammi, da scrittura orientale, resi ambigui da stratificate pennellate di getto, vitalistiche, quasi di cancellazione e di diniego, mai di traccia, ora l'uso di sentieri, veri e propri percorsi labirintici: quei famosi «reticoli» che nell'evocare l'aspirazione libertaria con un'implicita vocazione ad andare oltre i limiti fisici della superficie pittorica per nulla però intendevano far riferimento al dripping, alla scolatura imprevista di pollo. Quanto nell'artista americano era volontà di fuoriuscire dai limiti, in Turcato si trasformava in vincolo, costrizione, quasi indugio all'interno come in un'area di permanenza obbligata. Allora si potevano al massimo allargare quei sentieri sino a farli sentire con una sorta di ciolsonnisme come topografie e urografie di un territorio magico come era quello del quadro in cui Turcato doveva fare i conti con la sola pittura nei suoi valori elementari di colore, luce, superficie e inventare così, con un'alchimia tutta esibita, mai esoterica, il proprio procedimento. E che in Turcato ci sia questo interesse per una contaminazione tra materie diverse per giungere con una alchimia di tipo elementare a risultati sorprendenti ce lo indicano le sue ricerche degli anni '60 ad oggi. Da allora inizia a introdurre nelle sue opere, corpi estranei come tranquillanti, monete o brandelli di pelle, in un'accezione però tutta diversa ed estranea ai risvolti dadaisti più tesi a far diventare oggetto trascurabile il corpo estraneo, per accentuare il circuito in cui viene inserito e la carica ideologica implicita per cui tutti gli elementi, pur estranei alla pittura, diventano invece protagonisti nell'opera di Turcato. L'uso di sostanze fluorescenti che permettono la variabilità della superficie pittorica o la sperimentazione di un'internità tutta epidermica, affrontata nelle varie «superfici lunari» continuano la ricerca quasi da ritrovamento fortuito sulla via di un esperimento continuo senza binari vincolanti. Nelle superfici di gommapiuma, la stessa materia, fattasi superficie pittorica con il suo carattere butterato, senza mai sconfinare nell'idea «di concetti spaziali» di L. Fontana, in sintonia piuttosto con le successive ricerche di P. Pascali, con la sua ricreazione di un mondo fantastico a portata di mano, cerca di ricostruire come in laboratorio, attraverso una esibita falsificazione, un reperto venuto da lontano che possa anche farsi antigrazioso nel suo carattere «allucinato» che la freddezza dei colori plumbei e asprigni accentua. È l'idea dell'inganno visivo che si farà sempre più sentire nelle successive opere di Turcato specie negli sconfinamenti delle varie configurazioni delle «Porte».
Attorno al '70 le sue opere tendono sempre più a sconfinare, si riduce la presenza di elementi devianti, restano solo ampie distese, si fissano limiti e confini all'interno per lasciare la libertà verso l'esterno: sembra che ormai l'al di qua sia stato tutto indagato. Ma uscire vuoi dire per Turcato continuare ad allargare, ad estendere la magicità del suo territorio. E, proprio a queste indicazioni, a questo procedere per eliminazione, sulla via di una riduzione agli elementi primari della pittura fa riferimento tutta la ricerca di G. Turcato dagli anni '80 ad oggi. Una ricerca che vede sempre più il ricorso ad ampie stesure nel tentativo di superare i limiti fisici della tela, in cui ancora è ossessivamente presente quel suo straordinario «Ricordo di New York» del 1963 e su cui si stratificano le sue ricorrenti incursioni del segno, le sue strutturazioni geometriche tese a «sbilanciare» la lettura dell'opera e a fissare la sinuosità di alcune «figurazioni» che si danno come frammenti ingigantiti. E se il tentativo di depistare attraverso cangiantismi e fluorescenze, cui fa spesso di nuovo ricorso, rende meno perentori le sue monadi isolate ed i suoi erratici territori che strutturano come una cartografica della mente le sue opere, certo il primato della visione, su cui G. Turcato sembra insistere, non può tuttavia occultare la serrata riflessione che le sottende. Riaffiora così quel loro continuo interrogarsi sui più cogenti temi del Moderno quali il corpo, la ragione, la memoria, la storia, il tempo e lo spazio. Il tutto riproposto in una sorta di viaggio alla luce di situazioni spaziali e temporali sempre rimesse in discussione sino a conferire all'intero itinerario artistico di G. Turcato una connotazione da arabesco continuo quasi ad indicare la sua volontà di allontanarsi dal primato della ragione che caratterizza il pensiero classico in assoluta antitesi alla sua perseguita «modernità». Egli tende ad accreditare una ragione che si rappresenta irregolare ed asimmetrica ed attraverso la quale contrappone ad un caos indistinto il primato dell'intelligenza. E proprio sotto il segno dell'arabesco, anche se non certo dal punto di vista formale, sembra snodarsi la sua più recente produzione artistica quasi ad evidenziarne, nella sua negazione di qualsiasi strutturazione labirintica, la sua predilezione per una sorta di negazione indefinita di qualsiasi struttura chiusa. Laddove il labirinto diventa una figura conoscitiva, l'arabesco, atopico, traccia piuttosto i percorsi lungo i quali si dipana la conoscenza, il suo continuo piegarsi e dispiegarsi come nelle liriche di Michaux: non un viaggiare ma un vagabondare. Tutto ciò conferisce al lavoro di G. Turcato una duplicità quasi si trattasse di far coincidere polarità opposte, il limite tra le quali si configura come una instabile, linea di confine. Il suo luogo privilegiato è allora quel «cancellato», quasi ri-mosso, passaggio dall'ombra alla luce lungo il quale gli opposti si confondono, varcando le rigide delimitazioni della ragione, fino a ritrovarsi in un luogo intermedio, la conradiana linea d'ombra laddove l'ibrido ed il cangiante esprimono la voglia di continuare ad errare.
© Francesco Moschini
Estratto dalla rivista "Costruire", n. 102/103, 1977
La pittura è il campo delle apparizioni, il luogo in cui deflagrano forze ed energie necessariamente in collisione tra loro. Se nell'arte del passato il pittore usava la propria manualità al servizio di una visione unitaria del mondo, nell'arte contemporanea, in particolare in quella del dopo-guerra, egli ha operato ed opera per affermare la centralità del frammento. Una costellazione di dati interiori abita stabilmente nel dominio della pittura, introducendo nel discorso dell'arte una forza erompente e discontinua del particolare.
La gestualità della pittura informale era mossa da un impeto romantico, in quanto cercava di rifondare attraverso la pratica problematica del frammento una visione totale del mondo. Se il mondo si sottraeva allo sguardo totale, il pittore d'azione cercava tuttavia di ristabilire, col vitalismo della propria gestualità, una connessione rassicurante ed esaltante dei frantumi nei quali la realtà rovinava. La pittura diventa il campo d'approdo di una pratica solitaria e rituale attraverso cui l'arte celebrava la possibilità di riscatto della negatività della storia. Il flusso della esistenza trovava una depurazione nell'attimo verticale della creazione artistica, nello stesso tempo era il riconoscimento dell'impraticabilità della vita in termini diretti e frontali. Soltanto l'arte poteva riscattare l'inerzia del quotidiano mediante l'esemplarità di un gesto non certo quotidiano. Così arte e vita si ponevano in una posizione di conflittualità permanente ed irriducibile senza possibilità di trovare una conciliazione.
Da una parte la vita, con le sue irreparabili sconnessioni, dall'altra l'arte con le sue accorte lacerazioni.
Perché l'arte, anche quella informale, passa sempre attraverso il vaglio della forma, nelle maglie di un linguaggio che non lascia nulla alla estemporaneità e alla improvvisazione. Il destino della forma è irreversibile e tocca ogni prodotto artistico. Il gesto della pittura non può sottrarsi a tale destino, anzi può accelerarne il corso proprio attraverso la precipitazione emotiva della manualità che si accanisce sulla superficie del quadro. Soltanto nel linguaggio il gesto trova una sua esemplarità, una misura adeguata alla propria tensione espressiva.
Giulio Turcato ha attraversato col suo lavoro molte stazioni della ricerca contemporanea.
Ha dato luogo ad una produzione espansiva ed inarrestabile, in cui l'approdo non è mai il risultato, la bella forma
congelata nel quadro, ma il processo continuo di scavalcamento dell'opera precedente.
Egli si è mosso secondo una idea di erranza della pittura, secondo un movimento aperto e circolare sempre nel territorio del segno e del colore.
La costante dei suoi spostamenti è stata sempre quella di incrociare la pittura nei punti della sua pelle.
La pelle della pittura è il suo punto di distensione, il luogo in cui l'immagine diventa irreversibile apparenza. Fuori dall'immagine non esiste nulla, se non le profondità irraggiungibili dell'inconscio che possono lievitare sulla superficie del quadro soltanto come segno e colore.
La pittura non permette interdetti o censure, non ammette rimandi fuori del proprio dominio. Turcato lavora su questo erotismo, sulla polluzione splendente di forme e colori che planano sulla tela o emergono dal suo fondo.
Essere espliciti significa dare alla pittura la possibilità di non essere reticente, di esprimere la propria potenza senza alcuna economia del risparmio. Infatti Turcato non ha mai badato a spese, quanto a continua produzione e continuo sbilanciamento. I quadri si sono succeduti ai quadri, materiali pittorici si sono incrociati con materiali extrapittorici senza sosta. Perché nell'arte non esiste sosta e nella pittura non è possibile assestarsi nella maniera. Questo è il dato essenziale della pittura di Turcato che ha investito il suo ruolo di una totale applicazione.
Il quadro è il frutto di un grazioso arrovellamento sempre nei modi di una pittura che trova nella tradizione cromatica veneta i suoi antenati linguistici. Il senso del colore è rigorosamente bilanciato da una misura percettiva che non si abbandona mai al puro piacere dell'immagine.
L'erotismo scatta proprio nella capacità di Turcato di tenere l'opera dentro le due polarità del colore e della sua impaginazione nello spazio del quadro. L'immagine è sempre rilassata ma non si lascia mai andare fuori dalla calibrata tensione che la sostiene.
L'artista è consapevole che la pittura è una casa di vetro, esposta continuamente alle intemperie del gesto, allora è necessario operare con la delicatezza nomade di una mano che non violenti la pelle che la sostiene. La pittura nasce dalla storia della pittura e dal sentimento individuale dell'artista che riesce a promuovere un'azione interiore adeguata alla delicata fattura per realizzarla. Dipingere non è un'azione esplicita e spettacolare, non richiede soltanto movimento ed assalto ma specialmente uno stato di grazia ed una perizia interiore.
L'interiorità dell'azione pittorica nasce dalla squilibrata disciplina dell'artista che possiede dentro di se la nozione dello spazio e del tempo. Queste due non esistono semplicemente all'esterno, oppure esistono in tale misura come supporti ed argini per l'azione quotidiana. Fuori dal quotidiano dentro il luogo esemplare dell'arte, il tempo e lo spazio sono dimensioni introiettate, sono deposito e struttura portante dell'immaginario. Esse vivono incarnate nella sostanza fantastica in una maniera inestricabile ed interna. Nella pittura di Turcato spazio e tempo celebrano il rito di una diversa apparizione, si dispongono al di fuori dì ogni funzionamento tradizionale.
Il logocentrismo occidentale ha sempre, sistemato le due dimensioni come sfondo e scansione dell'azione umana, come supporti arginanti ed arginati degli arbitri dell'intelligenza. Lo spazio, nella storia della pittura, ha assunto via via forme simboliche differenziate che ne hanno prodotto un aggiornamento secondo i principi dell'ideologia politica e della scienza.
La dimensione temporale nella storia dell'arte ha anch'essa ubbidito allo sviluppo progressivo della storia delle idee, sempre nella scia di una mentalità logocentrica.
Con l'avvento delle avanguardie storiche e delle nuove metodologie, il tempo e lo spazio hanno trovato una coniugazione diversa, meno anchilosata negli impacci della razionalità. Hanno trovato uno svolgimento più adeguato alla nuova sensibilità, portata a trovare una misura di tutte le cose in rapporto ai parametri dell'interiorità e comunque della soggettività.
L'interiorità significa mozione dell'incertezza, dello squilibrio, della dinamica e della discontinuità. Significa rimando ad una realtà posta al di fuori di ogni argine di sicurezza o di certezza anticipata, messa invece su un piano inclinato della precarietà e del caso. Così le coordinate spazio-temporali attraversano l'immagine non più come supporti rigidi ma si impastano nel tessuto dell'evento visivo partecipando all'epifania, dandosi anch'esse epifanicamente, dell'immagine stessa.
Turcato ha sempre interiorizzato dette dimensioni, portandosi così fuori della retorica della pittura d'azione, fuori dal luogo comune che ha voluto vedere nella gestualità esagitata del secondo dopoguerra una strategia di occupazione della realtà esterna. Invece Turcato ha sempre perseguito rigorosamente la via dell'interiorizzazione del gesto, ha sempre legato la propria creatività ad una disciplina per niente estemporanea, eppure messa sotto il segno di un impeto calibrato.
Spazio e Tempo diventano in tal modo delle estensioni interne, di cui non esiste alcuna definizione prima dell'immagine. Anzi esse coesistono contemporaneamente all'immagine, sono consustanziali ed intrecciate alla sostanza visiva. Per Turcato è come se lo spazio esistesse allo stato gassoso, in una smaterializzazione mobile che solo l'arte riesce a tramutare in sostanza concreta e densa. Soltanto che lo spazio non si configura una volta per tutte, non si lascia cogliere in una immagine definitivamente formalizzata. Al contrario richiede una dislocazione mobile, un senso della veduta precario ed instabile. Soltanto l'artista, che ha lo stato di grazia di vivere tale precarietà senza drammi ma come unica rotta percorribile, riesce ad affrontare felicemente tale dimensione.
Turcato ha questo stato di grazia, riesce ad avere l'illuminazione, il senso epifanico dello spazio. Così l'immagine è distribuita sulla superficie del quadro senza gradazioni spaziali. Una simultaneità governa l'immagine, una compresenza di tutti i punti di vista assiste la visione. D'altronde anche il tempo si intreccia allo spazio, si situa in una relazione totalmente risolta. Espansione e concentrazione dell'immagine trovano un unico tempo percettivo, il respiro biologico delle forme trova un sincronico ritmo col piacere organico del guardare.
Non a caso nei quadri di Turcato non esiste profondità ma sempre un lavoro di pelle sulla pittura. La profondità significa gradazioni spaziali e temporali, soltanto l'uniformità bidimensionale permette una percezione simultanea ed istantanea. La bidimensionalità è dunque il campo in cui Turcato risolve le sue epifanie spazio-temporali, dove meglio è possibile dare continuità e fluidità ad una idea cosmica di tali dimensioni. Prima dell'opera è come se spazio e tempo non esistessero, come se l'artista operasse nel vuoto assoluto, nel luogo della non-dimensione.
II quadro è il territorio dove avviene l'esplosione, dove si riversano simultaneamente frammenti di tempo e di spazio ma nella loro dimensione filosofica, come sostanze impalpabili ed imprendibili, ma accostabili mediante un abbordaggio leggero e sfiorante. Infatti lo spazio conclusivo resta nel quadro come una forma aperta di nebulosa, nella incertezza di uno stato che segna sempre il punto di un erotismo senza confine ma anche senza mai un culmine.
Un cinismo filosofico governa l'opera di Turcato, l'indifferenza per il tema e per l'immagine. Tutto è occasione di pittura, perché tutto è sottoposto alla legge del tempo e dello spazio. La forma è consustanziale alla superficie del quadro ma non ne è mai schiacciata. Essa aderisce e nello stesso tempo si sottrae ad una fissione definitiva. Accenna alla sosta e contemporaneamente si dispone come sintomo di movimento. E la sua apparizione non ha un verso per essere guardata; perché non esiste dritto o rovescio. L'apparizione non rispetta la convenzione dello sguardo ma si insinua tra i due versanti della tela.
In questo contatto, e proprio attraverso di esso, l'immagine acquista movimento ed erotismo. Infatti si espande e si contrae fuori dai segni rigidi della geometria. Accenna ad un suo prolungamento oltre il confine istituzionalizzato del quadro. Tale accenno, seppure resta mentale, non nasce mai da un progetto, da un programma di intelligenza, ma sempre dall'evento flagrante della pittura, dal gesto calibrato che vibra e sfiora la tela nella misura esemplare dell'arte. L'arte resta il parametro ultimo dell'opera di Turcato, che si muove sotto l'impulso necessario e biologico di una creatività che trova dentro di se le proprie leggi. La legge fondamentale è quella della sfasatura tra segno e colore, anche quando il quadro tende teneramente al bianco. Il bianco non è il colore della neutralità e della assenza di emozione, ma quello della rarefazione e dell'assottigliamento che toglie drammaticità al gesto, riportandolo nell'alveolo naturale della sua interiorità. La pittura è il luogo del suo splendente riverbero.
Il riverbero è anche un segno di memoria un segno di cultura. L'artista è sempre assistito da una perizia, che nasce da un'attitudine e nello stesso tempo dalla storia della pittura. Ma per Turcato non esistono modelli. Il riverbero è distanziamento dalla precisione dei modelli e degli antenati linguistici. Esso funziona come una sorta di memoria sublimale che permette all'artista di assorbire nella sua opera scaglie di lavori precedenti, ma allo stato di atmosfere.
Dipingere è sempre una maniera, una disposizione corretta e sorretta da una memoria soggettiva e oggettiva. La soggettività rimanda alla posizione storica dell'artista, l'oggettività alle stratificazioni di linguaggio e stile che si trovano naturalmente in ogni opera d'arte. Nella pittura di Turcato le due memorie si condensano inestricabilmente nell'immagine che diventa il campo folgorante di una memoria irripetibile, che non può essere dichiarata differentemente.
L'immagine non rinuncia a nessun elemento, tradotto in termini di pittura mediante lo stile del riverbero. In tal modo il rimando viene attenuato e riportato dentro l'immagine assorbente. L'assorbimento è totale e indolore, reso naturale da un'idea biologica della pittura. Turcato tramuta i segni della memoria culturale nei segni di una creatività che con-serva anche la tentazione di una ulteriore imminenza. Questo nasce da un'idea di non-finito che abita la sua pittura, un'urgenza che fa precipitare l'immagine e la condensa in una forma capace di ulteriori sviluppi: lo consente la biologia dell'arte.
Perché l'arte ha una sua biologia, fatta di accelerazioni e di arresti, di rimandi culturali ed improvvisazioni, di depositi di energia e di derive esterne. L'arte pesca sempre nel torbido, in un immaginario che tende a conservare le proprie pulsazioni anche quando viene formalizzato nello spazio del quadro. Turcato sa bene che le forme dell'arte sono attimi di arresto visivo di un movimento vitale inarrestabile. Il tempo e lo spazio del quadro sono governati da una mentalità borgsoniana che tende a cogliere tali dimensioni nella loro dinamica.
Alla dinamica cosmica è sincronica quella dell'artista, fatta di spostamenti progressivi dello stile, di intenzionale volubilità espressiva, di scarti laterali e veloci rispetto alle esperienze precedenti. Turcato opera su una poetica mobile e flessibile, su un progetto continuamente aggirato e sovvertito. L'idea di poetica non è quella tradizionale di fedeltà di stile e materiale pittorico, bensì di un'aderenza continua dell'immagine all'impulso creativo. L'arte diventa un flusso vitale di pittura che scorre in superficie, sulla pelle appunto, per meglio fluire e scorrere. La forma, in cui coincidono segno e colore, transita senza intoppi sulla tela, come di passaggio, per orientarsi verso direzioni plurime. L'espansione è il portato di questa immagine, che corre nello spazio senza l'ebrezza futurista della velocità, eppure nel conforto di un vuoto che si tramuta in spazio, via via che l'immagine si condensa e si forma. Il tempo è scandito da una velocità rallentata, attuata mediante forme schiacciate e mai aguzze ma sinuose e tondeggianti.
La transizione sembra essere il movimento di fondo dell'opera di Turcato che passa da un quadro all'altro, da un materiale all'altro, da un linguaggio e da una forma all'altra. Anche quando sembra stazionare nello stesso punto, portare a termine un quadro, egli si serve di un atteggiamento slittante che lo porta fuori da qualsiasi fissità espressiva e stereotipo formale. Ma questo non nasce da una semplice inquietudine esistenziale, tipica della sua generazione, quanto invece da una vitalità che non potrebbe adottare altra soluzione che non sia quella di una soave cleptomania linguistica, ribaltata subito in controllo stilisticamente originale.
Perché Turcato non pensa all'arte come ad un territorio di conquista ma come un luogo di transito e di mobilità, che crea a sua volta altra mobilità. Nella sua pittura non è mai affermata l'idea di proprietà, scaturente dal bisogno della novità a tutti i costi. Dove c'è mobilità non può esserci conquista, proprietà e fissità dunque.
Nell'opera di Turcato esiste una nozione molto più moderna che è quella di un mobile possesso, di un uso non violento della pittura, che tanto lo avvicina ai giovani pittori dell'ultima generazione. Così, se tra l'arte e la vita c'è una giusta differenza, non c'è comunque soluzione di continuità. Lo stesso flusso inarrestabile governa i due territori separati, spingendo la pittura nel luogo della transizione. Non è possibile altro destino per l'artista contemporaneo, portato ad una mobilità irrefrenabile, vissuta senza angoscia, in quanto condizione naturale e sana per ogni pratica artistica. Turcato smaterializza la materia della pittura, per meglio poter adempiere a tale movimento. Un movimento che rimanda anche a quello della musica, fatto di slittamenti sensibili e di emergenze improvvise, segni di un linguaggio che vola via veloce nella pienezza di uno stato interno e per questo senza peso.
Achille Bonito Oliva, La pittura come azione interiore, catalogo mostra, Galleria Sprovieri Roma, 1980.
In queste settimane la Galleria nazionale d'arte moderna di Roma ti dedica una grande mostra antologica. Cosa significa per te: la vedi come una consacrazione, come un debito finalmente pagato, o è una mostra come le altre?
Beh, come una consacrazione spero proprio di no... E' un riassunto di tutto quello che ho fatto, una grande prospettiva immaginifica di quello che mí è passato per la mente in questi anni. Naturalmente sono contento, anche se non è la prima antologica che faccio; l'ultima l'ho tenuta al museo di Monaco, in Germania.
La Galleria di Roma è l'unico museo «nazionale» italiano. Non ti sembra un po' assurdo che non si riesca a fare mostre-scambio con altri musei europei, e magari americani? Perché mi sembra che la tua mostra non verrà esportata.
Questo dipende da una sorta di incomunicazione che c'è tra le diverse situazioni anche burocratiche. Non c'è una base su cui operare in modo tranquillizzante e tempestivo. Ci vorrebbe gente che se ne occupasse.
Non pensi dipenda anche dal fatto che la lira è più debole rispetto al dollaro?
No, perché lo sponsor si trova sempre, e industriali e mercanti i soldi li hanno.
Allora è questione di uomini, di idee, di teste.
Io credo sia proprio questione di una critica che non si muove a livello internazionale.
In Italia, e in generale in Europa, la vera arte è sempre considerata quella del passato, mentre gli americani si identificano con l'arte italiana contemporanea. A chi dai ragione?
Io penso che siano nel giusto gli americani. Noi non abbiamo né l'organizzazione né la voglia di mandare
le mostre di qua e di là. Questo è il punto.
Fino a una decina d'anni fa, la parola «avanguardia» era tenuta in grande considerazione, adesso sembra non abbia più valore. Perché?
C'é la Transavanguardia, che però è stato un ritorno all'indietro, verso il novecentismo, anche se alcuni artisti sono bravi.
Tu appartieni alla generazione degli «artisti del '48», che nell'immediato dopoguerra cercò di sprovincializzare l'arte italiana dopo la parentesi fascista. Cosa è rimasto di quelle polemiche, che i giovani di adesso stentano a capire o almeno non conoscono bene?
Intanto è rimasto che veramente siamo in pochi, molti sono scomparsi. Ma soprattutto quella situazione così particolare, sociale, fatta di incontri tra noi, non esiste più. Anzi, è durata appena qualche anno, poi ognuno si è ritirato in una specie di torre eburnea. Io abito nel centro di Roma: prima incontravo della gente, adesso non vedo più nessuno. Anche tra Roma e Milano i rapporti sono strani: quando ci s'incontra, è come se ci si vedesse per la prima volta, pur conoscendoci. S'inciampa sempre in qualche cosa che fa scivolare.
Quello che dovrebbe essere normale, è un'eccezione...
A Milano, per esempio, c'era il bar Giamaica in cui una volta ci s'incontrava tutti. Adesso ci sono solo turisti!
Si ripete continuamente che la storia dell'arte procede per cicli, in cui si alter-nano le fughe in avanti e i ritorni all'or-dine, la pittura calda e la pittura fredda, l'astrazione e la figurazione. Tu che hai sempre attraversato queste fasi con la più grande libertà, credi sia solo una questione di etichette oppure c'è qualcosa di inevitabile in questi movimenti ciclici?
Io credo sia nel subcosciente di una certa cultura italiana il guardare sempre un po' all'indietro, il ritorno all'ordine, a qualcosa di crepuscolare. Avviene anche nella letteratura: ha avuto degli sbalzi, ma poi si è tornati, in fondo, a una scrittura liscia e lenta, senza curiosità e fantasia.
Tu parli della situazione italiana, però questo succede anche altrove...
E' vero, succede anche negli altri paesi. Ma io ricordo che durante il fascismo andavo con mio padre alla Biennale di Venezia e c'era solo una piccola ala dedicata ai futuristi, perché Marinetti in fondo era un grande organizzatore, mentre tutto il resto era retorica, apoteosi del regime. Adesso questi quadri sono scomparsi. Qualche volta ne salta fuori uno con Mussolini a cavallo, ma sembra proprio un tempo passato.
Secondo te, un artista risponde solo del suo lavoro, oppure deve impegnarsi anche come intellettuale nella difesa delle proprie idee, scrivendo, polemizzando se necessario, insomma intervenendo attivamente nella scena artistica?
Si dovrebbe anche intervenire. Però allora è necessario un concettualismo diciamo attivo, come c'è stato con il gruppo di «Forma 1» e con altre situazioni tipo «Fronte nuovo delle arti». Altrimenti la cosa cade sempre nel-l'individualismo. Oggi, per esempio, siamo diventati tutti dei solitari, non c'è niente da fare. E' un male che fa parte un po' dell'indole degli intellettuali italiani: si nascondono, non si fanno sentire, ognuno si adagia nella sua cuccia.
Dovendo parlare dei tuoi rapporti con la critica, come li definiresti? Secondo te, la critica deve essere creativa, come dice Bonito Oliva, oppure deve intervenire solo per mediare il rapporto con il pubblico?
La critica è nata per mettere in rapporto gli artisti col pubblico e con gli altri intellettuali. Deve sviluppare questo rapporto col dialogo, ma adesso tutto questo si è sfaldato e non c'è più contatto. Bonito Oliva è il prototipo del critico-manager e forse è l'unico che resta. Non mi pare ci siano molti critici di questo tipo. Ma anche lui si è un po' rallentato, mi pare. Non c'è più una vibrazione.
C'è mai stato un critico il quale abbia scritto qualcosa sul tuo lavoro che ti ha sorpreso, rivelando qualcosa di cui tu non avevi consapevolezza?
Venturi, e anche Argan, in un certo senso, e poi il tedesco Messer, che ha scritto un testo per questa mia mostra di Roma.
Negli ultimi anni, qualche critico ti ha indicato come un antecedente rispetto a esperienze fatte da altri giovani pittori, come ad esempio i rappresentanti della Transavanguardia. Tutto questo ti ha fatto piacere o ti sei sentito un po' strumentalizzato?
Beh, sai, la strumentalizzazione a volte può anche far piacere, secondo com'è condotta. E poi, per un artista,
sentirsi abbandonato solo a se stesso non è una bella cosa...
Hai rapporti personali con questi giovani? Voglio dire: frequenti i loro studi, ti vengono a trovare, oppure li incontri solo alle mostre?
No, ci incontriamo solo alle mostre. Non c'è più rapporto. Il fulcro, una volta, era via Margutta, via del Babuino, piazza del Popolo. Adesso non più. Se ci incontriamo, è all'inaugurazione di una mostra: ci sono i saluti, qualche commento, ma poi... è come una palla che va contro il muro, che torna indietro; ma se la palla casca a terra, non succede proprio niente.
L'ultima corrente di cui si parla in Italia è quella dei cosiddetti «anacronisti». Trovi qualche ragione in quello che fanno o li consideri solo come un momento di chiusura rispetto ai grandi temi dell'avanguardia?
Io trovo che è una cultura priva di energia, una pittura accademica. Ma allora è meglio De Chirico. Ho visto recentemente una sua mostra, e per lo meno c'è un senso, un commento nel tirar fuori il tempietto greco; c'è uno spirito, c'è qualcosa. In questi altri mi pare ci sia solo dell'accademia. Negano non solo l'avanguardia, ma la pittura in sé. Fanno del chiaroscuro, non c'è invenzione. Si può anche fare pittura guardando indietro, ma allora bisogna avere un certo spirito.
Tu hai fatto oggetti, sculture, hai usato materiali molto diversi, ma sostanzialmente hai sempre dipinto. Quando la pittura, alla fine degli anni '60, con l'av-ento dell'Arte povera e poi di quella concettuale, venne considerata antiquariato, come reagisti, cosa pensavi? E comunque, c'è qualche artista concettuale o dell'Arte povera che ti abbia interessato?
Veramente non mi ha sollecitato proprio nessuno, perché mi pare una situazione un po' scolastica, di ritiro per pensare. Per me solo l'opera fa vedere l'idea che c'è dietro l'opera. Le loro elucubrazioni non m'interessano.
Ripercorriamo un po' la tua storia di pittore. Tu sei nato a Mantova nel '12, hai studiato a Venezia, poi sei stato a Milano, nel '43 sei approdato a Roma. Prima di Roma, quale città ti ha segnato di più come pittore?
Penso Venezia... No, Venezia è una città pigra. E' interessante perché ci sono le Biennali, ma ormai è una città deserta. Quand'ero lì avevo sempre voglia di scappare, capisci?
Quando sei andato a Milano, nel '37, che clima hai trovato? Quali sono stati i tuoi amici, con chi ti incontravi?
A Milano c'era ancora un clima novecentista e io ho fatto anche una certa fame... Poi incontrai l'architetto Muzio che mi fece fare dei mosaici. Sì, c'era un certo fermento, ma era fragile.
Facesti a tempo a conoscere gli astrattisti che si raggruppavano attorno alla galleria del Milione?
No, erano già un po' passati e poi facevano quadri geometrici... Si andava alle loro mostre, ma erano rintanati, nella città non si sentivano.
Nel '43 arrivi a Roma. Come ti sembrò la città, perché decidesti di fermartici?
Sono venuto a Roma per il clima. Mi ero ammalato, quindi il clima di Milano non mi conveniva, quello di Venezia neanche; e poi la capitale mi è sempre piaciuta. Inoltre nel dopoguerra a Roma si era creata una situazione antinovecentista, c'era la voglia di uscire da certi schemi. Anche se questo viene negato, era proprio così.
Quali furono i problemi più gravi che tu e i tuoi amici doveste affrontare? Parlami di quegli anni.
C'era la polemica artistica e c'erano pure le ristrettezze economiche, ma abbiamo trovato anche qualche appassionato che ha cominciato a comprare i nostri quadri. Poi, ci arrangiavamo con qualche decorazione. Parliamoci chiaro: era la «bohème», che tra gli artisti esiste da sempre.
Nonostante questo tu, se non sbaglio, fosti tra i primi ad andare all'estero per vedere l'arte moderna direttamente alle sue fonti, alle sue origini. Con chi viaggiavi?
Con Consagra sono andato prima di tutto a Parigi, dove abbiamo avuto contatti con Magnelli, Pignon, Manessier e molti altri. La sorpresa più grossa fu senz'altro la scoperta di Kandinsky al Museo d'arte moderna. Kandinsky ha una visione originale, costruisce un altro mondo. Poi, non è geometrico ed è un grande colorista.
Non conoscevi per niente Kandinsky prima di andare a Parigi?
Avevo visto delle foto e qualcosa anche alla Biennale di Venezia prima della guerra, ma non ero ancora edotto. Poi, sono stato anche in Germania e in Inghilterra, dove c'era una specie di realismo rimaneggiato, abbastanza curioso. A Parigi sono tornato più volte e vi ho anche soggiornato con una borsa di studio. Ero affamato di vede-re, e poi a Parigi ci sono delle passeggiate molto interessanti.
Arriviamo a «Forma 1». Come nacque questo gruppo? Voglio dire, ci fu qualcuno che fece da intermediario, oppure tutto avvenne spontaneamente?
«Forma i» è nato in via Margutta, dove io e Consagra avevamo lo studio vicino. Poi si sono aggiunti Dorazio, Perilli e tutti gli altri. Eravamo dei volontari, decisi a uscire da una situazione novecentista, a cambiare le cose.
Sulla base di quali letture scriveste il manifesto di «Forma 1», quali incontri aveste per mettere a punto le idee?
Tutto nacque dai viaggi a Parigi, dai quadri che vedemmo. Avemmo subito sentore di qualcosa che si muoveva in modo diverso che da noi, di una pittura nuova e più moderna.
Voi in quel manifesto vi definivate formalisti e marxisti. Ora, del Formalismo non si sapeva molto in Italia. Non c'entra un po' Ripellino con le sue conoscenze?
Beh, Ripellino faceva un po' il cantautore, però la situazione è partita proprio da noi. Volevamo cambiare. Il manifesto l'abbiamo scritto noi.
Una domanda inevitabile su Guttuso: una sola, ma te la devo fare. Qual'è stata la sua influenza, quali i suoi meriti e quali le sue colpe, naturalmente dal tuo punto di vista? Perché Guttuso è stato importante in quegli anni, nel bene e nel male...
Guttuso faceva una specie di espressionismo in quegli anni. Era molto cordiale, molto socievole, era vivace nel parlare, aveva idee che sembravano abbastanza moderne. Però poi c'è stato questo suo ritiro...
Fino a un certo punto è stato un vostro interlocutore...
Si, è stato un interlocutore, però lui era più famoso, aveva più successo di noi, e inoltre aveva avuto un passato antifascista. Dopo è successo il patatrac. Ci siamo divisi, ci hanno attaccato, il Partito comunista in testa.
Tu avevi la tessera del Partito comunista? Sì, durante la Liberazione sono stato nel Partito comunista. Poi, le cose non hanno più combaciato.
Quando si ruppero i rapporti? I famosi attacchi di Togliatti furono la goccia che fece traboccare il vaso, oppure giunsero inaspettati?
Inaspettati no, perché ci aspettavamo di tutto. Però abbiamo sentito la scollatura come un'eco di ritorno. Noi avevamo un altro punto di vista, più moderno insomma: volevamo uscire a tutti i costi dal novecentismo, mentre loro avevano una visione veristica, più o meno. E questo è stato il loro sbaglio. Noi volevamo essere liberi. La rivoluzione poi pare non sia venuta, se mi guardo in giro non la vedo...
Da allora ti sei più avvicinato ad altri partiti, oppure hai conservato una certa diffidenza?
No, perché penso che la politica dovrebbe aiutare gli artisti e non imporre le cose. Qui siamo subito in una re-pubblica diciamo spartana, invece che ad Atene, capisci? Invece in una vita, quella borghese, già abbastanza regolata, bisogna almeno guardare quello che succede al di là di questa condizione.
Oggi il Partito comunista si dichiara molto aperto nei confronti dell'arte. Non credi a questo atteggiamento?
Io per la verità non mi sono accorto di questo cambiamento. Di fatto il Partito comunista non ha svolto un'autocritica in questo senso. Continua una sua linea con i vari Zigaina, Guttuso, Pizzinato.
E della tradizione libertaria del socialismo cosa pensi?
Mah, vedi, si deve sentire, si deve organizzare, tirare fuori i soldi anche: io non vedo niente di tutto questo. Se mi affaccio alla finestra non vedo nessuno! In fondo nel dopoguerra, nonostante i ritorni all'ordine, le cose sono andate avanti liberamente. Ecco, bisogna stare dalla parte dove si può scegliere. Oggi il mondo dell'arte si è «imbisuito» in una situazione programmata.
Come si svolge la tua giornata di lavoro? Sei metodico, confusionario?
Si è metodici quando si è nelle idee. Il quadro non salta fuori così, all'improvviso. La verità sta in questo: per poter essere veloci, come è giusto, ci vuole prima una preparazione, anche tecnica. Poi, il quadro deve essere fresco, questo è il punto. Il momento felice viene lavorando. Ma questo non è poi un gran segreto...
Ti capita di passare lunghi periodi senza dipingere?
No, questo no. Magari ci sono storie, grane, ma anche se non dipingo faccio magari disegni, «gouaches». Distrazioni non ce ne sono molte, la vita è diventata un po' piatta... ma forse è meglio così.
Tu potresti andare a vivere in campagna?
No, io sono per stare nel centro della città. Ho vissuto anche in periferia, ma non mi piace. Puoi anche guardare la campagna, ma oggi anche quella è burocratizzata. I boschi dove stanno più? L'arte nasce dall'incontro delle idee, e questo è possibile solo in città. Anche nel Rinascimento c'era un colloquio nelle grandi città di allora, a Firenze, a Venezia. In campagna mi verrebbe voglia di tagliare gli alberi, di bruciare qualche pagliaio... è così! Per fare l'arte ci vuole un programma mentale, basta che non sia noioso. Tu puoi girare tutta l'Africa restando in Europa, capisci? Bisogna inventarla, la bellezza, è tutta una questione interiore. L'artista è un astronauta che lavora con l'immaginazione, con illuminazioni solitarie.
In genere, ti convince di più il giudizio di un mercante o di un critico?
Ci sono dei mercanti che hanno veramente un occhio molto acuto, ma sono rari: in genere, sono sedotti dai denari. Le tentazioni per chi si occupa d'arte sono tante... I critici, per esempio, spesso cercano nel quadro delle similitudini con le loro idee. Altre volte, c'entra la politica. Raramente artisti e politici creano insieme una civiltà. E' successo in Egitto dove le piramidi, anche se inutili, sono perfette, sono una forma assoluta, sono un pensiero anche tecnologico straordinario. Invece il tempio greco, in fondo, rompe un po' le scatole, come la chiesa: sono tutte cose bellissime, per carità, ma un po' retoriche, insomma.
Oggi, Roma è la città giusta per un giovane artista, o gli consiglieresti di andare altrove, magari a New York?
Secondo me un giovane deve girare, deve vedere le differenze. A New York ti puoi anche perdere. Per me vivere a Roma, come ho già detto, è anche una questione di clima. Io sono stato anche in Cina, dove predomina la massa... che è un po' disastrata. Mi ricordo di essere stato, con altri italiani, in una piazza enorme dove c'era stato un comizio. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Sembrava che nessuno mi guardasse, invece mi guardavano tutti, senza voltare la testa. Ho provato una strana sensazione, come se improvvisamente mi potessero far scomparire. Ho capito che ero veramente solo, veramente diverso, come erano diversi loro: e questa sensazione me la porto ancora dentro.
Parliamo del tuo lavoro. Qual è la linea dell'arte italiana alla quale ti sei rifatto, quali i maestri che ti sei scelto quando hai cominciato?
Beh, i Fauves, con Matisse in testa, e, per quanto riguarda l'Italia, i futuristi, che poi sono stati traditi. Un altro impatto l'ebbi con il Giudizio Universale di Michelangelo: è veramente qualcosa che va oltre l'umano, una specie di piramide, qualcosa di assoluto. E poi, tutto il Rinascimento italiano.
Della Metafisica, cosa pensi?
Beh, De Chirico, che conosco come le mie tasche, è un grande pittore che non è stato ancora capito. Tuttavia, effettivamente, è sempre un po' classicheggiante, ma in una situazione moderna. Non è un rompiscatole come Poussin, per capirci, perché è vario, e questo i francesi non lo possono comprendere.
Della Scuola romana, di Mafai?
Mafai era un tormentato, perché aveva un impeto che a un certo momento si arrestava. Non ha mai fatto un grande quadro; era un bel pittore, ma voleva fare Goya e non ne aveva il temperamento. Oscillava tra l'impressionismo e la pittura tonale. Scipione sbaglia di più, ma sbaglia in modo giusto. Vedi, un pittore deve sbattere in faccia alla gente quello che la gente non vede, altrimenti non succede niente! De Chirico ti sbatte in faccia qualcosa della Grecia che ha capito solo lui!
La tue idea del movimento di «Corrente»?
«Corrente» è un falso. Hanno cercato di uscire dal Novecento, ma hanno fatto una pittura all'alkermes! Niente a che vedere con De Chirico.
Il Surrealismo ha avuto importanza nello sviluppo del tuo lavoro?
Beh, sì. E' una situazione inventata, intellettualistica, che va oltre il visivo, quindi è importante.
Quanto deve il tuo colore alla tradizione dell'arte veneziana?
Io veramente devo molto a Matisse, anche se sono assolutamente diverso, e un po' a Modigliani. Con Venezia, anche se sono veneto per gli studi, non ho molto a che fare. Matisse è vera-mente un grande maestro, che non si può neanche copiare perché è troppo libero. Morandi invece non mi ha mai convinto, come per la verità neanche Magnelli, troppo ligio a una matematica di forme che trovo sbagliata. L'occhio non vede tutto, lo deve far intuire però. E' tutto qui. L'astrazione significa fare dell'arte senza bisogno della rappresentazione naturalistica della realtà. Ma il quadro è comunque l'identificazione di un'immagine.
E allora, quali sono i tuoi temi, i tuoi soggetti, o se vuoi i problemi che affronti nella tua pittura?
Il fatto è questo, tu hai toccato un punto giusto: l'astrazione non può essere uno schema, ma qualcosa di un po' sognato, non ligio a una situazione accademica. Il mio pallino sarebbe proprio di inventare qualcosa che non si è mai visto. Ancora non ci sono riuscito, però. Con la scoperta dell'America si è visto per la prima volta che la Terra era rotonda: invece era meglio quand'era piatta... E comunque intorno alla Terra c'è il buio, e questo m'interessa. La logica non spiega tutto. Se c'è il mondo del Sole, c'è anche il mondo del nero. Noi ci assoggettiamo all'occhio che vede con la luce, ma c'è anche un altro mondo che non conosciamo e che è infinito. Perché non andiamo a vedere che c'è al di là, dietro l'altra faccia della Luna, fuori dall'atmosfera? Io non so mica se noi vediamo giusto! Per esempio, ho letto che gli animali vedono a due colori, in bianco e nero. Solo noi vediamo colorato. Chi ci dice che abbiamo ragione noi?
Tu hai fatto dei quadri cercando colori che vadano oltre lo spettro...
... ma perché voglio cercare qualcosa oltre gli schemi conosciuti della luce, senza essere schiavo dell'occhio. Non voglio farci una filosofia sopra, ma neanche voglio essere schiavo dei miti. Il nostro modo di vedere e di immaginare è un po' campato in aria, ma una realtà universale c'è e noi non la conosciamo, questo è il punto.
Il tuo segno è stato spesso paragonato a una scrittura, che conserva sempre una sua autonomia e una sua energia...
Davanti a me c'è una lavagna, cioè la tela bianca o colorata: io mi astengo da un ragionamento, il segno lo faccio affidandomi al subcosciente. L'automatismo surrealista mi ha interessato, ma deve essere sempre personale, diverso anche dalla mia testa, naturale come un animale quando mette una zampa davanti e una dietro, ma senza saperlo. Anch'io vorrei fare la stessa cosa, ma purtroppo siamo prigionieri della
ragione e sappiamo sempre quello che facciamo perché abbiamo un'educazione, una cultura. Invece bisognerebbe dipingere in «trance» assoluta: sarebbe fantastico!
Tu non hai mai amato la geometria e ora credo di capire perché...
Ma, sai, la geometria è una costrizione mentale, non m'interessa.
Il tuo lavoro si svolge sulle due dimensioni, è una pittura di superficie. Qual è il tuo rapporto con la pittura americana, con i maestri dell' Action Painting?
Vedi, Pollock è ancora legato all'espressionismo ma il suo gesto è anche «contro», contro la società: è un gesto di critica e anche di liberazione. Insomma, la pittura americana mi interessa, ma ormai i problemi sono altri: noi abbiamo davanti una situazione culturale abitudinaria, da cui dobbiamo uscire.
Allora dimmi qual'è, nei tuoi quadri, il legame tra il rigore e la libertà, tra la fantasia anche più sfrenata e la cultura.
Ti faccio un esempio: la linea diritta è un rigore che conchiude. Ecco, bisognerebbe trovare una linea che non fosse di questo tipo. Insomma, bisognerebbe inventare un altro ordine, non formale, non conformista. E questo vale anche per il colore, per la politica, per tutto e per tutti. Guardando i miei quadri, quadri che forse ancora non ho fatto, uno dovrebbe vedere una cosa diversa, al di fuori di quello che già conosce.
Un'ultima domanda, alla quale in fondo hai già risposto: cosa significa per te la pittura, come la vivi?
La vivo come un bisogno, non potrei fare nessun altro mestiere. Per l'uomo delle caverne il segno era liberatorio, il suo subcosciente si esprimeva liberamente; il segno di noi moderni è troppo culturale. Io vorrei tornare ad essere libero, senza rimanere infognato in nessuna situazione.
Claudio Verna intervista Giulio Turcato in Mondo Operaio, Rivista mensile del Partito Socialista Italiano, febbraio 1986, pp. 140 - 144
Roma, 16 marzo 1990
Settantottesimo compleanno di Giulio
Caro Giulio,
Auguri! Auguri! Auguri!
So che Viareggio ha preparato per te grandi festeggiamenti. Non riesco a immaginare una festa più originale. Mi dispiace solo non poter essere presente.
Nel ridente luogo delle Maschere, l’”Oceanica” spiccherà come un fiore esotico; così come le “Libertà”, che si riflettono nel Lago di Piediluco, sembrano graziosi animali a spasso per il mondo.
I tuoi colori così cangianti e così fluorescenti, hanno certamente influito non solo sulla psiche, ma sul modo stesso di percepire la pittura nel suo complesso. Sì, caro Giulio, sei un giovanissimo Maestro, ti dobbiamo tutti qualcosa, per esempio I tuoi “Tranquillanti per il mondo” hanno placato non poche isterie di quanti hanno inteso la pittura solo in bianco e nero.
La pittura, hai sempre dimostrato, è colore, dentro e fuori lo spettro, è scrittura non solo automatica. La materia della scrittura è percorribile. Ciò spiega, in un certo senso, le passeggiate che si possono fare sulle “Superfici lunari”, con quei loro crostoni leggeri.
Per te scultura e pittura sono sinonimi di articolazione spaziale, prima che altro “Plurimi” spaziali. Per te non esistono fatti cronologici: l’arte è qualcosa che non si può catalogare come materiale d’archivio. La tua gioia di vivere è la nostra, riflesso profondo di tanta libertà conquistata nel tempo.
Artisti e critici comprenderanno la tua pittura soltanto se si porranno dalla parte insostituibile delle “Libertà”.
Mille di queste opere!!
Salutami Vana, a presto.
Italo Mussa
"Il verbo di una proposizione non è 'è vero' o `è falso'... bisogna, al contrario che ciò che 'è vero' contenga già il verbo".
(Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus).
A passo lento, con una velocità di crociera costante, impercettibile, ma inarrestabile, contento di non considerarsi mai arrivato per poter spingere ancora avanti l'insegna della propria pittura in cammino verso un imponderabile "altrove", schivo anche oggi di onori, Giulio Turcato sta dimostrando di essere il maggior pittore italiano di vocazione astratta e di impronta immaginativa ed uno dei maggiori europei, oggi che il secolo si compie e che inevitabilmente trae i suoi bilanci. Si potrebbero ripetere per lui le parole che Federico Nietzsche premise ad Aurora , l'inno più ardente dello scrittore alla passione della conoscenza e la sua più strenua battaglia contro i pregiudizi morali: "In questo libro troviamo all'opera un essere sotterraneo , uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. Posto che si abbia occhi per un tale lavoro in profondità, lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce comporta; lo si potrebbe dire perfino contento del suo oscuro lavoro. Non sembra forse che una fede gli sia di guida e una consolazione lo compensi? Vuol forse aver la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora ?"1
Parole a cui fanno eco queste di Turcato: "Così adagio, adagio, pazientemente per cambiare l'espressione ed il tempo".2
A questo primato Turcato è di diritto innalzato per aver riportato alla vera dimensione inventiva, estetica, qualitativa, un luogo minoritario, la pittura, assediato su innumerevoli fronti da guastatori e calpestato innumerevoli volte in questo secolo, assegnandogli deliberatamente il compito, superata ogni religione ed ogni misticismo, di ricondurre l'uomo verso un al di là laico, verso una condizione di ulteriorità e di aperta possibilità, che lo liberi dalla sua prigione di conformismi e di abitudini.
Si può solo concordare con Emilio Villa (non a caso un poeta), il più pertinente interprete e, per amicizia, interlocutore di Giulio Turcato, quando gli assegna il merito di aver liberato la pittura dagli "empiti e stampi culturalistici", dagli obblighi di servizio o repressivi e da quelli storico-estetici: "La pittura, nel passato, è sempre stata più o meno finalizzata come apoteosi, cioè deificazione di potenti, di burocrati, di amministratori, o celebrazione di dei, di santi, di grandi madri, come filigrane di immortalità, cioè di tutti gli alibi del dispotismo e del loro spazio (è noto che l'immortalità dell'anima è l'ideologia di ogni ragione dispotica, con i suoi custodi, martiri, e amministratori)".3
Alla pittura Turcato ha dato un mandato "addirittura terapeutico", le ha affidato "un modo di agire psicologico e non didattico"4, visto che per eccellenza è "nemico del dogma" e "dell'assolutezza"5 e, per paradosso, ha potuto allontanare da essa ogni sospetto di attività supplettiva e di supporto, di funzione secondaria e subordinata, in un'epoca che, come la nostra, ha perduto la coesione delle proprie finalità ed è predisposta a costruzioni ausiliarie e fittizie e a sofisticazioni di ogni sorta, conducendola da un massimo di assolutezza e pienezza ad un massimo di aleatorietà e di incertezza.
"Ciò che dipende da noi è di compiere il negativo, il positivo è già dato" ha scritto Kafka.6
La pittura è stata così de-figurata, de-nomi-nata, de-situata, s-definita, ridotta a finzione suprema, anzichè di compensazione, costretta entro quel limite che appartiene a lei sola e che lungi dall'essere fisso è talmente mutevole ed inafferrabile da dover venir conquistato ad ogni istante e ad ogni istante conosciuto-ri-conosciuto.
Quel limite vibrante è la linea di demarcazione più esigua tra due realtà opposte — una complexio oppositorum7 o sinèresi — "lampo tra due confini non territoriali", "luce che abbuia tutto il resto" (scrive Montale)8, contrazione tra sfondo e figura, tra apparizione e sparizione, tra estrema prossimità e lontananza, tra recto e verso, tra pre e post. questo allora uno spazio di frontiera e fra le cose, uno spazio nomade e del mutamento e uno spazio della favola della pittura, dove la pittura coincide con la propria metafora.
Libertà e storia
Fuori d'ogni retorica, anche il posto che compete alla libertà nella Storia, dato e non concesso che l'insieme di eventi che definiamo Storia stabilisca le norme, detti le leggi di una determinata epoca, non può che consistere nell'oscillazione continua tra norma e deviazione dalla norma. Un luogo atipico, perché scaturisce dalla fluttuazione, moltiplicabile per la quantità delle norme, dunque indeterminato, anzi un non-luogo o, forse, anche meglio, uno spazio atopico9, spaesato, attraversato in tutta la sua estensione da questo ondeggiamento pulsante che ha la propria delimitazione e il proprio vincolo so-lo in se stesso, non fuori di sé.
Questo spazio, "stazione libera della pittura"10, è lo spazio di Giulio Turcato, vero luogo della differenza, dove il nome libertà si coniuga con quello di verità, diverso e complesso, eretico, rispetto a tutte le grandi categorie da cui, con nonchalance solo apparentemente casuale, il gran maestro si svincola, semmai accogliendole al proprio interno per sondarne il fondamento.
Burri, Fontana, Capogrossi hanno dettato i codici per le generazioni future, i cosiddetti pilastri della seconda metà di questo secolo, anche se può apparire blasfemo, hanno dato forma, tuttavia, a modelli di comportamento ben più lineari e semplici di quello indicato da Giulio Turcato, specimen leggero, trasparente, volatile, ma tanto più implacabile nella sua penetrazione e persistente, dato che ogni codice porta con sé la propria trasgressione e che l'inflessibile. evidenza lo espone ad una più rapida obsolescenza.
L'opera di Turcato, eccedendo o ritraendosi da qualsiasi posizione fissa, eludendo ogni volta le linee di demarcazione chiusa, è resi-stente quanto una torre costruita con il sistema antisismico, la cui stabilità è, in que-sto caso, inversamente proporzionale alla capacità di flettersi durante le oscillazioni di ogni scossa o strappo prodotto dalla gran macchina della Storia.
Le corrisponde un'inalterabile freschezza, una complessità intrigante, perché disseminata e sfuggente, un'estensione che sconfina dalle dimensioni temporali stilisticamente identificabili, tesa a sorprendere l'infinito nel suo strenuo divenire.
Investito da una massimo di emblematicità, l'individuo sale alla ribalta nel suo match con la Storia, quando, giunto il suo momento, riesce a cavalcare la tigre del tempo. Chi segue questa legge, tuttavia, ne è poi a sua volta scavalcato, chi sfuggendone le pressioni e le urgenze procede secondo la propria inclinazione, ottiene che sia il tempo a lavorare per lui.
Quanto è avvenuto per Giulio Turcato in questi anni, l'attenzione che senza esclusione di sorta viene dedicata ad ognuno dei periodi del suo lavoro, oltre ad essere un effetto del gusto e della moda di cui necessariamente diffidare, ha a che vedere con questa legge. Il tempo stesso ha lavorato a suo favore determinando le condizioni necessarie per una messa a fuoco globale del suo per-corso sinuoso, che pare aver sviluppato, per decantazione, un proprio doppio etereo ancora tutto da decifrare.
L'indeterminatezza e l'instabilità di questo momento di fine secolo, crogiuolo di innumerevoli mescolanze ed amalgami, è forse uno staccio favorevole per esaminare lo spazio intermedio — il metaxu — in cui, fuori da ogni formalismo e consacrazione ufficiale, Turcato si muove perigliosamente a proprio agio seguendo il cammino più lungo ed intrecciato, dove è possibile ripercorrere il movimento di andata e ritorno che riallaccia la prima e la seconda avanguardia e, forse oltre, la fine del secolo scorso a questa, in un arabesco ineguagliabile.
Orientamento di vita
Di fronte agli eroi positivi, prometeici, come Burri, Fontana e Capogrossi, portatori di una nuova legge, fautori della frattura con il passato, Turcato è- l'antieroe o l'eroe invo-lontario per eccellenza, sorretto, contraria-mente a tutto lo spirito dell'avanguardia, non da stimoli guerreschi, ma pacifisti, non da motivazioni originariamente coscienti ma che trovano nel divenire la propria co-scienza, via o senso.
"Una persona può sembrare sciocca e tuttavia non esserlo. Può darsi che stia solo proteggendo con cura il suo discernimento" afferma lo Zen, e "Alcune cose, benché giuste, furono considerate sbagliate per intere generazioni. Poiché è possibile che il valore del giusto sia riconosciuto dopo molti secoli, non c'è bisogno di pretendere un riconoscimento immediato. Vivi con un fine e lascia i risultati alla grande legge dell'universo. Trascorri ogni giorno in serena contemplazione".11
Queste considerazioni Turcato potrebbe sottoscriverle, in quanto il suo atteggiamento è orientale per naturale predisposizione e vocazione (il viaggio in Cina del 1956 consoliderà e stimolerà soltanto l'orientamento personale), teso a riconoscere e a saggiare il senso riposto che guida una realtà in costante trasformazione, a sorprenderne i fenomeni e non a definirli. Leonardo Sinisgalli lo ha descritto magistralmente. "Così limpido e accigliato è lì sull'argine che guarda scorrere il filo della corrente, il pelo lucido della vita: le gambe e le braccia lunghe come quelle di Rimbaud nei disegni di Delahaye".12
Già sul finire degli anni Trenta i casi della vita, il suo vagabondare in ambienti diversi lo hanno convinto che "non si possono dare elementi così precisi e teorici a tutto quello che vediamo. Dobbiamo essere principalmente seri nella nostra osservazione e da questo trarre alcune conclusioni, ma mai renderle statiche", riassumendo "Si possono sol trarre delle grandi osservazioni che, a seconda della natura dell'uomo, prendono aspetti diversi".13
È già espressa in questa riflessione una concezione improntata ad un estremo relativismo proprio nel senso che questa dottrina ha assunto con il suo fondatore, lo scozzese William Hamilton, ma anche nella sofistica. nell'empirismo e nel criticismo e soprattutto nella differenziata elencazione di tropi (modi) che nello scetticismo suggeriscono la sospensione dell'assenso ad un partito piuttosto che ad un altro, si riscontrano numerose analogie con questo orientamento di fondo. Secondo Hamilton non solo il soggetto svolge un'azione condizionante sui propri oggetti di conoscenza, ma questi stessi si condizionano reciprocamente, arrivando paradossalmente ad affermare l'inconoscibilità dell'Assoluto e la sua esistenza in quanto si può credere anche in ciò che non si conosce. Proprio in questo e nella convinzione di. Oswald Spengler "Non vi è alcuna morale umana universale"14, consiste forse la maggior prossimità tra la concezione relativista e quella adottata da Turcato.
La differenza, al contrario, è nel sincretismo di cui l'artista non teme di servirsi per tradurre in realtà complessa l'unità della propria visione.
Mentre l'influenza della fenomenologia di Husserl e dell'esistenzialismo coloreranno di una tonalità negativa tutti gli anni Cinquanta, Turcato pur potendone registrare i punti di coincidenza con il proprio atteggiamento l'equivalenza tra l'essere e l'apparire nella coscienza interiore, la sospensione del giudizio per raggiungere una condizione puramente contemplativa — non subirà alcuna flessione nel sereno e fiducioso impulso a procedere che segue indisturbato la propria natura, il flusso della propria immaginazione creativa, e che di una scettica imperturbabilità o epoché si serve soprattutto per attivare la propria inesausta necessità di ricercare (in greco scheptomai).
Astrazione e immagine
L'universo di Turcato è un universo riflessivo che inaugura il mondo di poi, è primario e secondario insieme, inizia e segue contemporaneamente, in quanto è al tempo stesso una manifestazione dell'inconscio e della situazione momentanea della coscienza. Turcato non opera secondo il tempo storico e cronologico, rettilineo e misurabile, ma secondo una dimensione temporale infinita. Non riconosce dunque neanche la circostanza della frattura, del salto o dello strappo nel suo corso uniforme, ma semmai ne sfrutta i vuoti, le pause, le latenze per riempirli di senso, per carpire in essi i momenti eccellenti. Attraverso una linea combinatoria che rinuncia ad ogni esclusione e nella propria inclusività cancella i conflitti moltiplicando le possibilità, trovano espressione le caratteristiche della profondità e quelle della superficie e secondo un itinerario labirintico di tipo aperto e circonflesso ricevono ospitalità e si mescolano passato, presente e futuro, estensione e istantaneità, corporeo ed incorporeo.
"Come Giano bifronte il momento psicologico guarda davanti e dietro" ha scritto Jung "mentre si realizza prepara ciò che sarà"15. Il genere d'immagine che costella i quadri di Giulio Turcato è di carattere intrapsichico, ha una parentela con quella che Jung definisce immagine primordiale o archetipo. Essa risponde ad una realtà interna distinta da quella sensoriale, ed è di fatto "un prodotto dell'attività immaginativa dell'inconscio" che "si manifesta alla coscienza in maniera più o meno improvvisa" con caratteristiche non dissimili da quelle del "linguaggio poetico" da un lato e della "visione" dall'altro. "Sedimento mnemonico" o "engramma"16 la definisce ulteriormente Jung rivelandone anche nel contempo la vicinanza con il "segno" che non ha, tuttavia, carattere puramente sintomatico e fisico, in questo caso, ma al contrario si libra nella sfera già ad esso superiore del simbolico e dello psichico. L'oscillazione tra queste due zone è, sin dall'inizio, costante nella pittura di Turcato, che in modo del tutto autonomo e già tipico della sua personalità, attraverso la scansione a fasce dei primi dipinti o la grande cerniera a cloison sembra ripercorrere la lezione dei Fauves e di Matisse o quei modi Sezession a cui lo stesso Kandinsky si era addestrato agli esordi. Con un diverso intendimento, però, creare una equivalenza intrigante tra zone di colore e neri, tra opacità e trasparenza, tra superficie e profondità in modo da ottenere una pulsazione che va oltre il piano della tela e la percezione oculare, raggiungendo le conformazioni psichiche. Non solo nell'applicazione di particolari regole visive che tendono a sconfiggere i pregiudizi dell'occhio disturbandolo e spiazzandolo, ma anche attraverso la scelta dei temi, Turcato allude, subito, significativamente al mondo che sta sopra o sotto la superficie: Miniere e Scenderie da un lato, che implicano una discesa sotto la terra, Comizi" ed altre manifestazioni corali, dove le forme si librano nell'aria, senza peso, al di sopra di essa.
Con le Rovine, invece, che sono il vero punto di partenza della poetica di Turcato e dove l'artista pare trovarsi particolarmente a proprio agio, è uno spazio intermedio fra interno ed esterno, ombra e luce, conscio e inconscio che ci introduce nella sfera della visione, dove le spinte contrastanti generate dalla percezione sensoriale e da quella spirituale raggiungono l'acme della tensione e si dilatano fondendosi.
Con sfumature differenti questa condizione si andrà ripetendo nel Giardino di Miciurin e nel Deserto dei Tartari, archetipi della speranza e dell'attesa, momenti della stasi e della latenza in cui la vita ristagna in condizione di sospesa provvisorietà, per poi riprendere il proprio corso. O anche stati di metafisica contemplazione tra il qui e il là, condizioni letargiche che potremmo paragonare alla mi-mort di cui erano messaggeri de Chirico e Savinio. "Alla sua radice, alla sua nascita, il movimento dell'anima è differenziale, è una flussione, una fluttuazione, lo scarto all'equilibrio uguale a quello che modifica localmente la cateratta degli atomi. La vita secondo la natura rimane vicina alla nascita delle cose, al loro movimento modificato: il saggio abita questo scarto minimale, questo spazio fra il poco e lo zero, l'angolo fra l'equilibrio e la declinazione. Luogo del necessario e del naturale. Al di là ci sono soltanto una crescita vana e cose superflue; grandi malie grandi rimedi. Allora tutto si riconduce ad un calcolo del limite, ad una valutazione dei limiti e questo nuovamente è archimedeo"17. Così si esprime il maggior interprete di Lucrezio, il fisico Michel Serrès, aggiungendo che la "calma del Giardino" "si chiama atarassia", perché se "la natura è fiumi e trombe d'aria e marine", ovvero una situazione vicina al caos primordiale, che circonda le cose e "costituisce i bordi del mondo", "la vita del saggio è esente da turbolenze", "la più vicina alla natura".
Non v'è dubbio che anche Turcato paia volentieri aderire al consiglio di Seneca: ad legem naturae revertamur. Ora, non soltanto l'immagine primordiale è il prodotto di energie e di processi eterogenei e caotici che trovano in essa un senso per collegarsi fra loro ed un filtro fra il sensoriale e lo spirituale, ma è soprattutto "un'espressione d'insieme del processo vitale" che orienta "lo spirito verso la natura" "dando una forma spirituale all'istinto puramente naturale". Da essa eliminando progressivamente il concretisino "la ragione sviluppa un concetto-idea" che altro non è che "l'immagine primordiale formulata nell'ordine del pensiero".
Di fatto, come mi era già capitato di notare, non solo "la pittura di Turcato è un ciclo che idealmente interpreta il corso del tempo e le trasformazioni della materia"18, ma il suo carattere simbolico, che ha il pregio di "rivestire l'Idea di una forma sensibile", anziché "approdare alla concezione dell'Idea in sé"19, favorisce una lettura del suo lavoro anche come "grande riflessione sulla Natura" non come "cieca concatenazione", ma al contrario come "costante sviluppo di un pensiero" nel "tentativo" di "raffigurare un'interpretazione del mondo", riconducendolo ad un ordine puramente estetico".20
Risulterà, forse, maggiormente chiaro, a questo punto, perché l'irriverenza di Turcato riguardo schieramenti, terminologie e definizioni, non tocchi la parola astrazione, nei confronti della quale egli mostra ancora l'antico deferente rispetto, nonostante l'eclissi che, in tutto il mondo, essa ha subìto per inadeguatezza a rappresentare una realtà complessa, diventando sinonimo di allontanamento dalla realtà e di schematismo dogmatico.
L'astrazione di Turcato è intessuta di sostanza metaforica, ogni oggetto che tocca, ogni materiale che utilizza, appena sfiorato, diviene "altro", percorso da un nuovo senso che ne interpreta la vicenda e ne mette a nu-do la forma intrinseca, l'idea originaria di cui è veicolo, la suggestione che sprigiona. Anche qui, in questi splendidi travisamenti o trasfigurazioni, di oggetti e materiali, di cui Turcato riesce a cogliere il riflesso, l'eco pittorica, l'alone trasparente che li circonda, da vero visionario, si rivela la profonda sua differenza dai materismi e materialismi degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, la sostanziale unità del suo universo di puro pittore, che vive in un mondo di qualità e quantità assolutamente mentali di cui conosce perfettamente la grammatura, e legge in filigrana le sgranature del tempo. Avviene anche con le sue sculture, semplici onde colorate in cui si liquefa il tempo e in tutto il registro dei suoi segni, così poco disposto ad assumere valenze ed automatismi ciecamente meccanici ed invece impersonanti tutte le stenografie dell'anima con le sue danze, le eccitazioni della mente, gli aliti viventi, le inclinazioni poetiche, in una svagata e divagante meditazione.
L'astrazione di Turcato è, dunque, la porta migliore non per uscire dalla realtà, ma per entrare nel suo lato invisibile, segreto, riposto e per rilanciarlo continuamente oltre attraverso un circuito metaforico che annoda insieme il passato, il presente e ciò che deve ancora venire, ossia l'espressione di una forma vivente.
Pittura e colore
"Il quadro di Gauguin Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? è un quadro importante, con un'idea molto moderna della situazione... Dall'antichità, dal primo uomo delle caverne fino adesso la nostra vita è quella. È una retta. Un segmento. Con l'arte si potrebbe far vedere qualcosa di più, che non è facile"21.
Secondo Turcato, che così mi parlava durante un lungo dialogo sul colore, il quadro di Gauguin esemplificava perfettamente la situazione dell'arte astratta e segnatamente l'estrema condizione d'incertezza in cui si trovano l'uomo e la relatività del suo conoscere. Il colore catalizza in sé il massimo della relatività, ha il potere di trasformare potentemente le nostre percezioni ed abitudini visive, in quanto l'occhio funge da selezionatore ed ha i suoi standards. La pittura, e quella astratta in particolare, dovrebbe trovare nel colore un equivalente dell'idea di diversità, una dimensione completamente fantastica ed inventata.
Basandosi sull'esperienza degli astronauti nello spazio, sul loro incontro con colori al di fuori dell'atmosfera e con bagliori che squarciano a tratti il buio, Turcato ha cercato di arrivare con la pittura allo "scavo di una percezione al di là del comune", trovando i colori al di fuori dello spettro, "colori che non si vedono, ma che si percepiscono con l'effetto di accostamenti anche in termini estremi, colori inventati perché vaganti nell'aura terrestre ed anche oltre"22.
I primi colori al di fuori dello spettro solare, ad un'analisi con lo spettroscopio sono il marrone e l'amaranto, siamo agli inizi degli anni Sessanta e Turcato fa partire da lì questa sua nuova avventura di pensiero. Grazie all'uso di particolari polveri, sabbie e collanti, la superficie acquisisce una variegatura sconfinata, nel cui amalgama molecolare luce e colori intessono straordinari movimenti e danno luogo a improvvise sorprese. È la ricerca del completamente nuovo, dello strano, del metafisicamente "altro", che Turcato va approfondendo e che, attraverso l'applicazione di polveri fosforescenti, toccherà una doppia immagine dell'opera al buio ed alla luce, una creatio ex nihilo, che si sprigiona come un'allucinazione o un'apparizione in diverse condizioni ambientali.
Il relativismo della concezione di Turcato si esprime in questo caso nell'applicazione di comportamenti e regole diverse a seconda delle occasioni (sfruttando anche le leggi del caso) e delle condizioni ambientali. L'attenzione di un tempo portata ai micro-eventi e alle trasformazioni infinitesimali, si traduce ora in una serie di tropismi continuati. L'invenzione dei cangianti appartiene a questa sfera.
Al regno nettuniano delle grandi metamorfosi, che vanno accumulandosi sotto l'apparente stabilità della struttura umana producendo le mutazioni della specie, si oppone il regno di Urano con la rapidità dei suoi riflessi, la spinta all'azione immediata, la capacità di invenzioni tecniche.
"La fisica delle fluttuazioni presenta così soluzioni locali: dei limiti, delle singolarità, delle flussioni, degli scarti, dei minima, dei maxima. È una fisica della pluralità dei mondi e della loro esistenza temporanea. La ragione all'opera nell'universale, le matematiche globali, sono soltanto di potenza, di turbamento e di crudeltà. Questa ragione è difficile e vana, copre la terra di morti e si diffonde come la peste. La morale presenta soluzioni locali"23. E così pure Giulio Turcato, democraticamente!
Giovanna Dalla Chiesa, 'I territori di frontiera di Giulio Turcato', in Giulio Turcato, catalogo mostra, Museo d'Arte Moderna di Ca'Pesaro, Venezia, 13 ottobre - 9 dicembre 1990, pp. 25 - 32
Note a piè di pagina
1. F. Nietszche, Aurora, Adelphi, Milano
2. G. Turcato, Metamorfosi, in cat. Palazzo delle Esposizioni, Roma 1974 (a cura di G. Dalla Chiesa e I. Mussa)
3. E. Villa, Giulio Turcato, in cat. PAC, Milano 1984.
4. G. Turcato,Metamorfosi, cit.
5. L. Sinisgalli, La poesia di Giulio Turcato, in Ventiquattro Prose d'arte, Ed. della Cometa, Roma 1983.
6. F. Kafka, , Rizzoli, Milano 1979.
7. F. Rella, Limina, Feltrinelli, Milano 1987.
8. E. Montale, L'onore, in Tutte le Opere, Mondadori, Milano 1977.
9. F. Rella, Limina, cit.
10. E. Villa, Giulio Turcato, cit.
11. N. Senzaki, P. Reps, 101 storie Zen, Adelphi, Milano 1985.
12. L. Sinisgalli, La poesia di Giulio Turcato, cit.
13. G. De Marchis, Giulio Turcato, Prearo, Milano 1971
14. O. Spengler, Tramonto dell'Occidente, Il Saggiatore, Milano 1967.
15. C. G. Jung, Tipi psicologici, Newton Compton, Roma 1972.
16. Ibidem.
17. M. Serrès, Lucrezio e l'origine della fisica, Sellerio, Palermo 1980.
18. G. Dalla Chiesa, Chimica e alchimia di Turcato, in cat. Palazzo delle Esposizioni, cit.
19. J. Moreas,Manifesto del Simbolismo, in <l 'arte="" moderna<="" em="">, vol. 6, Fabbri, Milano 1967.
20. G. Dalla Chiesa, in cat. Turcato/Moduli in Viola, Centro Di, Firenze 1984
21. G. Dalla Chiesa, Il colore come diversità infinita, dialogo con G. Turcato, in "AEIUO", Roma gennaio-marzo 1986
22. A. Imponente, scheda n.50, in cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma 1986 (a cura di A. Monferini)
23. M. Serrès, Lucrezio e l'origine della fisica, cit.
Turcato al “Ferro di cavallo"
Con una folta antologia di Giulio Turcato si è aperta, in via Ripetta 67, la nuova galleria “Al ferro di cavallo”. (…) In concomitanza con la mostra di Turcato, la rivista “Carte segrete” ha pubblicato il terzo volume della collana “Autoritratto”. La piccola monografia dedicata a Turcato raccoglie scritti di Murilo Mendes, Elio Mercuri e Carla Lonzi, ed alcuni brani tratti dai gustosissimi Soliloquia dello stesso pittore. In effetti un po’ tutta l’opera di Turcato è un eccitato ed estatico soliloquio, un mezzo tra i più diretti di registrazione degli altalenanti stati d’animo e dei mutevoli umori del pittore. Turcato è un personaggio piuttosto anomalo nel nostro ambiente artistico, spesso troppo conformista: un saggio, sia pure lunatico, che ha capovolto la tragedia in ironia e la melanconia in ilarità; un artista autonomo, nemico delle etichette critiche. La sua pittura, sempre attuale e talvolta anticipatrice, ha una felice immanenza. Una pittura tutta nervi, nemica di qualsiasi idealismo trascendente, discontinua ma libera; spesso perfetta, pur senza aspirare mai ad alcuna perfezione.
(“Momento sera”, 29 novembre 1968)
Turcato al “Capitello”
Al Capitello sono raccolte una ventina di opere di Giulio Turcato, datate tra il ’46 e il ’55. Una miniretrospettiva ma di notevole qualità, che permette di rivedere una parte del lavoro giovanile di questo pittore che, come ben osserva Cesare Vivaldi nella sua presentazione, “è tanto universalmente noto quanto, in realtà, sconosciuto”. Ecco dunque le figure ancora matissiane dell’immediato dopoguerra , seguite, già nel ’47, dalle prime composizioni astratte: sono gli anni della polemica partecipazione a Forma 1, ma anche dell’impegno del Fronte Nuovo delle Arti . Un impegno tuttavia che non va mai a discapito della libertà formale, che non baratta mai la fantasia e l’estro con la pressione o, forse meglio, con l’oppressione del contenuto obbligato. Così in quegli anni Turcato, pur legato politicamente all’estrema sinistra, sa rimanere indipendente dalle drastiche direttive di partito, alle quali tanti altri suoi colleghi sacrificano invece il meglio della loro personalità. Antillustrativo, antinaturalista, antirealista, Turcato riesce a fare tuttavia una pittura di idee, persino di ideologia; nascono così i Comizi, le Miniere, le Rovine di Varsavia e il ciclo dei Giardini di Miciurin e quello, indimenticabile, delle Mosche dell’epidemia, dove elementi informali vengono adattati a un tema di angosciante attualità quale fu la guerra di Corea. Una mostra dunque interessante, non solo per la qualità sempre felice della pittura di Turcato, ma per la lezione che, sia pure indirettamente, essa ci offre di libertà e di indipendenza intellettuale.
(“Momento sera”, 12 dicembre 1969)
Turcato al Palazzo delle Esposizioni
Con questa ampia mostra antologica di Giulio Turcato al Palazzo delle esposizioni, curata da Italo Mussa e da Giovanna Dalla Chiesa, l’Assessorato Antichità e Belle Arti del Comune intende riaprire un discorso da tempo interrotto con la vita artistica della città. Iniziativa lodevole in un momento di forte depressione psicologica e di pericoloso estraneamento dai fatti salienti della cultura, e scelta opportuna e felice. Turcato è infatti uno dei pittori meno discussi dalla critica e maggiormente seguiti dai giovani, oltreché un personaggio tra i più popolari e ben voluti del nostro pur difficile ambiente artistico.
Credo che ognuno di noi abbia rimproverato almeno una volta a Turcato di dipingere troppo, e di non selezionare abbastanza la propria produzione. Ebbene, questa esposizione, per quanto eccessivamente folta (più di trecento opere), e quindi, qua e là, inevitabilmente ripetitiva, prova quanto Turcato vada preso in blocco, nell’ottimo come nel meno buono, dal momento che proprio l’impossibilità a frenare il suo generoso ed eccedente estro pittorico è, alla fine, la conferma di una eccezionale e liberissima vitalità creativa. L’arte di Turcato nasce e cresce su se stessa, dalla pratica operativa, dal fare: non è progettata, non è censurata. La conoscenza, ossia l’illuminata chiarezza della visione, si manifesta nell’attimo stesso dell’esecuzione. Turcato è interamente nel presente, ed il presente è per lui non solo divenire ma essere. Dipingendo egli afferma e documenta la propria totale presenza nel mondo al quale, in tal modo, si dà e del quale, alla pari, partecipa. La sua pittura è dunque sempre un pegno ed un segno, una prova ed una testimonianza di vita, ma non nel senso esclusivamente fisico, gestuale, persino automatico, che al raptus del dipingere hanno dato i pittori dell’Action Painting, bensì in un senso più composito e profondo di una complessa, articolata istintualità che si manifesta, esprime e realizza solo attraverso un’attiva prassi creativa. La distinzione non sembri troppo sottile, persino capziosa, dato che in ultima analisi è una distinzione di civiltà o, se si preferisce, di radici culturali. Radici ampiamente ramificate, quelle del veneto ed europeo Turcato, che da Tintoretto a Tiepolo arrivano a Matisse, a Balla, a Miró, a Masson, mischiando in modo inscindibile le linfe già distillate e leggere di una tradizione, di una cultura, con quelle ancora contaminate, spesse, di una natura d’uomo tra i più complessi e bizzarri.
Fatta questa distinzione di fondo tra Turcato e molti informali, specialmente americani, assai più cupamente legati ad un loro esasperato, spesso angoscioso hic et nunc, si capisce come la pittura del nostro artista, pur direttamente partecipandone, sia tuttavia un po’ fuori dall’area dell’Action Painting o da altre possibili aree.
L’avventura pittorica di Turcato, tanto lieve e tanto intensa, tanto ricca e così poco doviziosa, è dunque soprattutto legata all’istinto (del quale abbiamo visto le due facce congiunte: la culturale e la genetica) e, come tale, ci appare nel suo iter pur sussultorio e dilapidato (niente è più dilapidabile dell’istinto) di una assoluta fedeltà, sino quasi alla monotonia, ed anche questo è logico, dato che si possono cambiare le nostre idee ma non i nostri istinti. Non a caso solo i pittori di puro intelletto sono capaci di capovolgere di continuo la loro pelle che non è attaccata alla carne e al sangue ma è un vestito che copre le strutture artificiali, sia pure talvolta eccelse, delle idee. Questa mostra che si vede, meglio, che si gode in un’unica corsa, fa dunque apparire il dilapidatore Turcato come il nostro pittore più fedele a se stesso, pur nella pratica costante di una conclamata libertà di atteggiamenti. Da qui la inutilità di troppe scelte e di rigide classifiche in periodi. Ciò non toglie, ovviamente, che nell’arco febbrile di trent’anni di lavoro si possano indicare alcune oscillazioni linguistiche e fare alcune importanti verifiche. Ecco allora sul finire degli anni Quaranta, allorché ormai abbandonata la figurazione in chiave matissiana (non sufficientemente documentata in questa mostra) Turcato entra, con l’adesione a Forma Uno (1947) nel vivo della poetica astratta, la splendida stagione dell’impegno politico. E’ il momento dei Comizi, opere, alla pari, di avanguardia e di fede, che avrebbero potuto cambiare il corso dell’arte impegnata e non solo in Italia, orientatosi invece, dopo la rigida presa di posizione di Togliatti, verso il più retrivo neorealismo. Fu un colpo duro per Turcato, e la cicatrice ancora è rimasta, se è vero che proprio da quell’amaro scoramento prese poi le mosse un certo suo atteggiamento scettico, cinico persino, che talvolta ne deforma il candido, naturale ottimismo di fondo. .
Altro periodo, quello della pittura segnica e bacillare ispirata alla Corea (1952-53): una personalissima, acuta rilettura di Kandinsky e Miró, che poco più tardi, durante un viaggio in Cina, troverà una stimolante conferma attraverso un nuovo interesse per l’ideogramma.
Altro fulcro, quello del recupero materico, spesso accoppiato ad una ricerca sulle superfici: non solo, quindi l’immissione di pillole tranquillanti, di carta moneta, di medaglie, nel contesto pittorico (parodia non polemica ma scanzonata in clima di revival dadaista), ma la serie “piena di meraviglie” delle gommepiume (1966) coperte di colori fuori dallo spettro.
Ed infine, questo piacere del colore vivo, acceso, che recentemente lo ha spinto ad uscire dalle dimensioni del quadro per invadere l’habitat urbano con slanciate strutture simili a steli di arcobaleno. Esperienza gioiosa, di grande effetto, sebbene non del tutto consona a Turcato, che ha bisogno per il suo drenaggio istintuale di un supporto e di un impatto più diretto, immediato, quale appunto quello della superficie del quadro. Turcato è un po’ come quegli scrittori che riescono a buttare giù pagine bellissime ai tavoli dei caffè, in mezzo alla confusione, al rumore. Non crede all’ispirazione dal momento che, a suo modo, è eternamente ispirato. Non ha bisogno di particolari situazioni ambientali, di grandi studi luminosi, di conforts, di musiche di sottofondo. Gli basta poco: se non ha i colori raschia i fondi.
Turcato entusiama anche i critici più sobri, concettosi, meno propensi all’abbandono critico, sebbene non sia un pittore né metafisico, né metaforico, né elegiaco. Non lo ispira la natura, non si ritempra nel plein air, amante com’è della città, della notte, delle atmosfere fumose e stantie dei caffè e degli studi mal aerati. Lo ricordo una volta a Verucchio, davanti ad un sereno, solare paesaggio di colline e campi, ritrarsi quasi impaurito mormorando: “E’ una visione infida”.
Certo lui i colori e la luce li prende dai tubetti, perché oltre che negli occhi li ha nelle mani, da quel portentoso bricoleur della pittura che è. Non esaspera i sentimenti; non si serve dei ricordi; odia l’autobiografia esplicita e la retorica, due cose che ripugnano alla sua segreta ma eccezionale eleganza di “anarchico gentile” . I suoi mezzi sono ridotti, persino poveri: mette un po’ di scarno colore sul foglio, passa leggera una pennellessa sulla tela, s’impiastriccia le mani di rosso e ne fa l’impronta, getta bave di sabbia e di colla, appiccica medicine, monete, foglietti di carta velina, e il quadro nasce, vive, esiste. Inspiegabilmente esiste? Non direi, almeno per chi creda all’esorcismo della Pittura. Così, vedendo questa mostra, viene voglia, dopo tanto, di sentirsi un po’ nello stato d’animo di quelli che accendono un cero “per grazia ricevuta”.
(“Momento sera”, 20 novembre 1974)
Gli esorcismi di Turcato
(…) Turcato è uno dei pittori meno discussi dalla critica e dei più seguiti dai giovani. Gli si rimprovera, semmai, di dipingere troppo, di inflazionarsi, ma ad ogni sua grossa mostra tutti ammettono che, nell’ottimo come nel meno buono, alla fine ha ragione lui. E non perché “tutto fa brodo”, ma perché tutto fa poesia, soprattutto perché tutto fa pittura. Ne è una conferma questa antologica appena aperta a Villa Stuck, sede della Staatsgalerie Moderner Kunst di Monaco. Più di cento opere tra oli, gouaches, disegni e strutture, datati dal ’45 all’83, presentati in catalogo da Erich Steingraeber, direttore generale dei Musei di Baviera, dai due curatori dell’esposizione, Cornelia Stabenow e Carla Schulz-Hoffmann, e da Argan e Calvesi.
Sette coloratissime, svettanti strutture, poste all’ingresso del parco di Villa Stuck, danno un festoso benvenuto al visitatore. Il loro titolo, Le libertà, assume qui un valore simbolico. Libertà è per Turcato non un concetto astratto né un’immagine retorica, ma un modo d’essere, di vivere, di dipingere. L’arte di Turcato nasce e cresce su se stessa, dalla pratica operativa, dal fare: non è progettata, non è censurata né, tantomeno, censurabile. Tuttavia, malgrado questa forte componente istintuale, essa non va confusa con quella degli esponenti dell’Action Painting. (…) E ad ammetterlo è stato lo stesso pittore, in un recente colloquio con Giuseppe Appella: “Non sono un lirico allo sbaraglio perché la mia cosa è pensata….Siamo talmente impregnati di cultura…”. (…) Turcato finisce ad essere un artista metodico proprio nella pratica di un volubile disordine inventivo, di un alato abbandono all’improvvisazione e all’estro, di continuo ricaricati e rinnovati dalla tecnica. “La tecnica – egli dice – ricrea la fantasia”. Un metodo, dunque, alla rovescia, del tutto anticonformista. (…) Ma è sempre il colore, il piacere del colore, la maggiore costante dell’arte di Turcato. Colore ora puro, squillante, compatto, ora marezzato e fluido, luminescente od opaco, che emana luce o che l’assorbe.(…)
(“Il Giornale”, 17 febbraio 1985)
Dal pianeta colore
Più che per tendenze, per “ismi”, gli artisti andrebbero divisi per famiglie. Giulio Turcato, del quale è aperta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna una ampia antologica a cura di Augusta Monferini, appartiene alla famiglia dei coloristi, dei pittori nati, giacché pittori si nasce, non si diventa. (…) Alle spalle di Turcato (che, non dimentichiamo, è nato a Mantova nel 1912 ed ha vissuto a Venezia fino al ’39) ha la grande tradizione del tonalismo veneto, di volta in volta squisitamente acquoreo od aereo . Di fronte ha Matisse, il suo vero Dio. Per Matisse, il colore serve ad esprimere la luce, non il fenomeno fisico della luce ma, come egli stesso ha precisato, “la sola luce che di fatto esiste, quella del cervello dell’artista”. Per Matisse, assai più delle immagini, è ancora il colore, l’esattezza dei rapporti, a configurare lo spazio. Per Matisse, infine, ed è una lezione che il maestro francese ricava da egiziani e bizantini, espressione e composizione decorativa sono, in ultima analisi, una stessa cosa: il modo pittorico per esprimere dei sentimenti. Matisse ha inoltre insegnato a Turcato che il disegno deve essere “essenzializzato all’osso”, fino a diventare segno, e che la visione è un fenomeno complesso: va quindi sfrondata dai particolari descrittivi e sintetizzata, accorpata in un amalgama compendiario, intensamente espressivo e mai veristico.
L’esposizione di Valle Giulia allinea settantuno opere dal ’47 all’’85, più ventisei dipinti provenienti dalla collezione Natale, tutti datati tra il ’44 e il ’53 e , quindi, preziosi per ricostruire gli anni della formazione. Proprio nella “sala Natale” appare evidente come oltre a matisse (destinato a restare anche in seguito un riferimento costante, una stella fissa) sono importanti per Turcato Magnelli, Kandinsky e soprattutto Balla. E’ da Balla infatti che Turcato prende le forme curvilinee e gli andamenti ellittici che conferiscono una spinta dinamica alle sue splendide opere della fine degli anni Quaranta. Inoltre, come afferma Augusta Monferini nella penetrante ed approfonditissima presentazione al catalogo, su Turcato già agisce una vaga matrice surrealista, “non come sospensione metafisica e tanto meno come fantasia illustrativa, ma nell’accezione sbocciante di Miró”. E accanto al funambolico Miró mi pare vada fatto il nome di Masson, dal quale, più tardi, Turcato deriverà sia l’impiego di tecniche casuali (ad esempio i getti o “bave” di colla coperti di sabbia e polveri fosforescenti), sia il gusto della scrittura semiautomatica che disgrega e dissipa l’immagine in una miriade di segni-colore. Ma quel che più colpisce e conquista in Turcato è fin dagli inizi il modo liberissimo, persino scanzonato, negligente, di interpretare i suoi maestri, in variazioni subito personali che mentre ribadiscono lo spunto iniziale, allo stesso tempo lo contraddicono. Turcato entra presto nel regno del tutto possibile, dove tutto avviene senza sforzo, con fragrante naturalezza. (…)
Una volta di più questa bella mostra testimonia come l’avventura pittorica di Turcato, pur mutevole, dilapidata e non priva di cadute qualitative, abbia una coerenza profonda, tanto più straordinaria per quanto non perseguita ed anzi, talvolta, combattuta. Coerenza che deriva dalle fedeltà all’istinto, all’immaginazione, e da un febbrile bisogno di novità, meglio, di futuro. Non a caso Turcato è uno dei pittori contemporanei più sensibili alle scoperte della scienza e alle conquiste spaziali. Ne danno prova la serie “piena di meraviglia” delle “Superfici lunari” e tutte le ultime grandi tele coperte da colori fuori dallo spettro, così simili a quelli che hanno abbagliato gli astronauti.
(“Il Giornale”, 23 marzo 1986)
Tutte le stagioni della pittura
L’attività del critico consiste principalmente nel vedere, ma in questa operazione, oltre al diverso metodo di approccio all’opera (ogni critico ne ha uno) sono possibili diverse attitudini che variano se si debba riferire le proprie impressioni ovvero formulare un giudizio, o invece, se si guardi senza alcun obbligo professionale, per diletto, curiosità, informazione, se non addirittura per appagare il vizio inveterato di deambulare da una galleria all’altra. In questo caso il critico flâneur, libero ed ozioso, è simile ad un acchiappafarfalle in attesa che nella propria rete a maglie strette s’impigli l’esemplare raro, che magari raro non è e che però, imprevedibilmente, risulta in consonanza con quanto egli cercava, calamitandone quindi sentimenti e pensieri talvolta ancora occulti, imprecisi. Questo raro piacere del vedere l’ho avvertito visitando due mostre (…). La prima vale soprattutto per un grande dipinto (la farfalla coloratissima che ha invaso la mia rete) intensamente impastato di rosa con pochi tocchi di un bianco latteo e di un azzurro di opale. Lo ha dipinto Giulio Turcato ed è esposto, con altre recenti opere del pittore, all’Editalia.
Tra poche settimane Turcato compirà ottanta anni (…). Ma Turcato miracolosamente seguita a dipingere, perché oggi come ieri dipingere è per lui come respirare, perché la sua arte nasce e cresce su se stessa dal fare: non è progettata, non è censurata né censurabile.
La personale raduna gli ultimi “cangianti”, una lunga serie iniziata dall’artista fin dal 1959 e così intitolata per le superfici sabbiate, marezzate e luminescenti che ne accentuano il carattere sensitivo. Ma il miracolo sta nel “Grande rosa”. Qui Turcato ha dipinto la giovinezza stessa, meglio, la memoria della Giovinezza. I turbamenti e le insidie, le passioni furiose e le appassionate battaglie sono decantati, ma ne resta intatta la fragrante meraviglia, lo slancio irripetibile.
(“Il Giornale”, 9 febbraio 1992)
Tutti i colori dell’arte tra le mani di Turcato: un ricordo del pittore
Il pittore Giulio Turcato, scomparso domenica , possedeva una filosofia della vita ed una concezione dell’arte che non mutarono mai, basate sulla libertà. La pittura era per lui un bisogno primario, incoercibile. La sua arte, che parve dilapidata e talvolta casuale, alla resa dei conti ci appare invece segnata da una rara continuità, la continuità dell’istinto, assai più forte di quella dei sentimenti e soprattutto delle idee. Turcato è stato un “anarchico gentile”, antiretorico ad oltranza, paradossale e lucidissimo. Oltre che un artista vero, fu un uomo di segreta ma autentica eleganza, del quale a lungo resterà la leggenda, tramandata da quanti lo conobbero. Forse il suo ritratto più bello, sull’onda del ricordo, lo ha lasciato Giuseppe Marchiori: “Ti rivedo com’eri, quando t’incontravo a tarda notte, mentre camminavi rasente i muri di Piazza di Spagna, o di via del Babuino, col baschetto infilato sulla nuca e con il volto pallido dagli occhi ardenti, seminascosto dal bavero alzato dell’impermeabile scuro. E ti piaceva parlare, parlare magari fino all’alba, seguendo il filo, noto a te solo, di un discorso fatto di pensieri improvvisi, che sembravano nascere da una fantastica scatola magica… La molteplicità dei tuoi gesti, sempre rinnovati nel corso del tempo, rivela l’impossibilità di fissarti, anche oggi, dentro uno schema, continuamente superato dal tuo slancio vitale”. Il ricordo di Marchiori si riferisce ai primi anni romani, quando Turcato alloggiava in via Margutta ed il suo studio era una corte dei miracoli dove chiunque poteva trovare un materasso per dormire e magari qualche soldo per mangiare, come ricordò lo stesso artista in un delizioso raccontino intitolato Tre biscotti.(…) Turcato non si ispirava alla natura: “L’arte - diceva - è una creazione dell’uomo e non della natura, non è fatta per riprodurre quello che vedono i nostri occhi, ma è guidata da un bisogno di esprimere le cose che si immaginano e che si sentono o si sognano, e che appaiono alla fantasia dell’artista”. Così, sino alla fine, egli ha cercato una luce ed un colore antinaturalistici, inusitati (…).
(“La Voce”, 24 gennaio 1995)
Lorenza Trucchi
Dove il mondo cessa di essere il palcoscenico delle nostre speranze
e dei nostri desideri per divenire l’oggetto della libera curiosità e della contemplazione,
là iniziano arte e scienza.
Albert Einstein
Qui il colore, strumento emotivo, vigilia e vigilanza dell’essere senza pathos emulazione dell’energia superna,
cerca di veder luce nelle dimore segrete, appartate, del rischio e dell’ambiguo.
(…) Si cominci a considerare quest’opera come un immenso vitale diario in extenso, come un secretum, come un itinerarium mentis in, come un incessante tractatus, (…) giusto da mettere al fianco delle grandi operazioni mistiche, a fianco della Imitatio Christi di Tommaso da Kempis…
Emilio Villa (Giulio Turcato, 1969)
…di indaco e di rosa, di oltremare e di garanza, di paonazzo e di turchino, di violetto e di perla, nelle mescolazioni rituali, libagioni, con arancio e solari ipnosi, bianchi mistificati e asciutte verità, verdefossile, verdefantasma, moltiplicati in rossobabele, blu tetri, grigio candela, perla saliva, terra bruciata, ocra cartapesta…
Emilio Villa (Giulio Turcato, 1984)
Giulio Turcato è uno dei più significativi interpreti dell'astrattismo pittorico in ambito internazionale, anche se il suo lavoro è assai più articolato e complesso, e comprende affascinanti risvolti figurativi e straordinarie sortite nell’ambito della scultura e della scenografia. Uno dei risultati di queste sortite è Superamento, maestosa scultura lignea di straordinaria energia dinamica, composta di più moduli, che gli Eredi Turcato hanno deciso di concedere in comodato senza limiti di tempo alla città di Pescara .
Turcato ha saputo imporre al ‘900 artistico un proprio inimitabile linguaggio, facendo della forma-colore la ragione di una ricerca inesausta, di una sperimentazione durata sino ai suoi ultimissimi anni di vita. E’ stato un esploratore straordinario, che ha fatto dell’arte il codice per interpretare il mondo in tutti i suoi aspetti, dalla biologia all'entomologia, dalla fisica all'astronomia: tutto diventa occasione per nuove invenzioni di forme e colori che ridefiniscono l'immaginario umano, individuale e collettivo, nel momento stesso in cui interpretano i vari modelli di conoscenza. “Queste immagini, sensazioni, materiali, memorie, illusioni, allucinazioni, forme, itinerari, sono il mio bagaglio, aperto alla dogana del prossimo millennio”, ha scritto Turcato nel 19851. Una dichiarazione di poetica fondamentale da parte di un artista che ha svolto un compito essenziale nel liberare l'arte dalle convenzioni accademiche, in un percorso originale e solitario. A dodici anni dalla sua scomparsa e a dieci dalla sua ultima importante antologica, sembra dunque opportuno riflettere sull'eredità importante da lui lasciata - e non ancora del tutto valutata e compresa – cercando di seguire un tracciato che ne esplori l'intensa attività pittorica, aderendo a quella sorta di nomadismo interiore che contraddistingue la sua poetica e che gli ha permesso di affrontare l'astrazione con radicalità e anticonformismo, con determinazione e lirismo, senza mai rinunciare alla sperimentazione. Attraverso il suo nomadismo interiore, il suo individualismo pieno di generosità e di coraggio, Turcato ha conseguito una cifra espressiva unica e inconfondibile, che ha lasciato una traccia indelebile sulla via dell'arte moderna e contemporanea. Già nel 1955 il grande poeta e critico Emilio Villa, appassionato studioso dell’artista, scriveva:
Le prime opere, di un lontano 1946, divennero ammirevoli, trascinanti: una violenta lacerazione nel tessuto incartapecorito del mestiere pittorico italiano. Contenevano un principio di trasparenza mentale, non più aneddotico o documentario, non più lirico o sensazionale, non narrativo o ironistico, ma semplicemente vitale. (…) riproponevano intero tutto il problema quale era, non tanto del mestiere pittorico, ma piuttosto dell’essenza medesima del pensare in pittura senza altri modelli che se stesso.2
Nato a Mantova, Turcato era vissuto a Venezia e a Milano, prima di stabilirsi a Roma, nel 1943. Dopo l’espressionismo in chiave fauve (e soprattutto matissiana) dei primi lavori, mediato in diverse misure sia dall’ambiente milanese (Birolli e Sassu), sia da quello romano, tra Mafai e Guttuso, la sua pittura si era orientata verso modelli in senso lato cubisti, risalendo alla fonte primaria dello “spirito Moderno”, individuata in Cézanne. Da un viaggio a Parigi del ’46 (con Accardi, Consagra e Sanfilippo) aveva d’altronde riportato determinanti suggestioni da Kandinskij e Magnelli. La questione della “Modernità”, dettata da “un nuovo modo di sentire”, doveva essere risolta secondo Turcato attraverso “forme del tutto nuove”, aldilà sia di ogni idealismo, sia dell’ “equivoco del realismo”. “Si deve cercare nuovamente la forma”, sosteneva Turcato, e aggiungeva:
Naturalmente, lo potrà fare chi è più cosciente e più vicino a ciò che si agita nel mondo, cioè l’artista che vede qualcosa davanti a sé, e non un uomo che ripiega continuamente per una sua struttura tarata da sentimentalismi e pietismi . Per questo riteniamo di una certa importanza l’esperienza dei primi astrattisti, anche se la nostra posizione è in direzione diversa”.3
L’opzione formalista di Turcato, operata nel nome della modernità, non è minimamente messa in dubbio dalla sua scelta engagée, dalla scelta di svolgere temi sociali, che troviamo esemplarmente rispecchiata nei titoli delle opere esposte alla Biennale di Venezia del 1950: Comizio e Miniera, ad esempio, che, come Le rovine di Varsavia (1948), o Rivolta (1949), o il più tardo Fabbrica (1954), risolvono soggetti tipici della pittura socialmente e politicamente impegnata di quegli anni nei termini di una straordinaria libertà compositiva e d’invenzione – di matrice vagamente cubista o cubofuturista, con più o meno marcate inflessioni ritmiche e decorative – sicuramente “eretica” rispetto alle attese - in quel periodo assai diffuse - di una più esplicita intenzione propagandistica. Ma l’itinerario artistico di Giulio Turcato si caratterizza, sin dai suoi esordi, per la sua autonomia e originalità, refrattarie a qualsiasi suggestione culturale troppo invasiva e cogente. Non scavano poi molto a fondo, nella sua personalità artistica, neppure le suggestioni futuriste e neoplasticiste, decisamente più importanti per gli artisti suoi compagni nell’avventura di “Forma 1”, intorno al ’47. Il confronto con Van Doesburg, ad esempio, evidente in una sua Fabbrica del ’47, è più polemico che emulatorio, e tende a contrapporre allo spazio intellettualistico dell’olandese uno spazio più vitalistico e intensamente percettivo, emotivamente carico. Uno spazio semplice e duro, concreto e saturo di tensione: lo spazio di un’esperienza esistenziale in fabbrica, appunto, uno spazio che nessun “realismo socialista” avrebbe mai saputo rendere in modo tanto efficace agli occhi e all’anima di uno spettatore. Forse anche grazie al recupero di alcune soluzioni formali proprie delle avanguardie russe, quali il trattamento della superficie pittorica per campi separati intersecantisi in un complicato puzzle, la compenetrazione tra zone cromatiche diverse, la rottura degli equilibri e lo straniamento delle parti componenti, Turcato, lontanissimo da ogni realismo, attinge a una carica ideologica e “politica” che non ha pari, nell’epoca dell’infuriare della battaglia tra Togliatti e Vittorini.
Nel primo Turcato, dunque, l’oggetto è presente se non altro come luogo a cui uncinare la visione che viene assestandosi . Nel testo visivo del primo Turcato risultano già abolite le categorie di massa e volume, del chiaroscuro, della prospettiva, della distribuzione gerarchica degli elementi e così via. Ogni composizione è infatti fondata su un referente preciso del mondo reale, di cui però risulta cancellata ogni nozione che ne dichiari l’appartenenza a questo mondo, quale si configura attraverso le coordinate spazio-temporali che ne consentono abitualmente la percezione. E se la bidimensionalità dell’immagine, con la conseguente assenza di volume, prospettiva, chiaroscuro ecc., dice che la scena è un altro luogo, al di là di ogni acquisita e riconosciuta nozione d’oggetto, questo luogo è il luogo stesso nel quale si genera la visione, e che preesiste al vedere puntuale e culturale dell’occhio che guarda. E’ il luogo della cosa che si-dà-a-vedere, non più nel suo quadro nozionale canonico, ma, per esempio, come struttura della luce, o come dispersione e pervasività degli elementi che la costituiscono, o come linea energetica, linea vitale. Lo sguardo è diventato abisso, ma abisso tutto risolto nella bidimensionalità della superficie. Vedere molteplice, intersecato da infinite prospettive che, perciò stesso, si annullano nell’assenza di ogni prospettiva, nel gioco delle intersecazioni-sovrapposizioni simultanee degli elementi che vi sono incorporati, in una totale, assoluta contemporaneità.
Accanto a quello per i temi politico-sociali, appare assai per tempo in Turcato l’interesse per i temi scientifici: ad esempio negli splendenti Giardini di Miciurin, con il loro il complesso cloisonnisme, l’intreccio e la sovrapposizione di aree cromatiche dalle combinazioni sorprendenti e inedite, che rinviano esplicitamente alla biologia "materialista e progressista" dello scienziato sovietico Ivan Miciurin, il quale sosteneva - in contrasto con Mendel, creatore della moderna genetica - che le novità organiche acquisite dagli animali e dalle piante durante la loro vita erano trasferibili al patrimonio ereditario: non esistevano né cromosomi, né geni, né meccanismi di ereditarietà, ma le caratteristiche degli organismi viventi si mescolavano liberamente durante la riproduzione, ed erano fortemente influenzate dai fattori ambientali. Ma la fuorviante “dottrina di Miciurin”, lungi dal sortire in Turcato effetti di rigidità dogmatica, si trasforma in una fiaba stupenda, origina un mondo fascinoso e fiabesco, in cui le zucche che Miciurin coltivava sono evocate da sfere luminosamente aranciate, portatrici di un’energia plastica e cromatica che dinamizza tutto il lussureggiante impianto coloristico. La forma si offre irresistibilmente seducente e insieme si maschera, si moltiplica, si sottrae, suscita in noi una profonda emozione tattile e visiva. Un’emozione “a pelle” : la pittura si fa già splendido arabesco, superficie vibrante, si fa percepire come “pelle” della pittura…
Le troviamo già, queste sfere, tra la frutta di un’acerba (ma non troppo) Natura morta del ’37, in cui a un apparente naturalismo ingenuo si sovrappone l’intrigante artificio dei colori, virati in una sorta di stranissimo arancio, come acceso dai bagliori di un incendio, che sembra già rinviare alle ricerche che Turcato inizierà negli anni ’60 intorno ai “colori oltre lo spettro”. E c’è anche, sia qui che nei fiabeschi Giardini di Miciurin, il ricordo di Cézanne, non tanto del Cézanne energico “scultore” di forme e di corpi, quanto del Cézanne stregato dal colore fino a una sorta di estasi. Il Cézanne che raccontava: “Sotto questa pioggia sottile io respiro la verginità del mondo. Mi sento colorato di tutte le sfumature dell’infinito. In questo momento sono tutt’uno con il mio quadro. Noi siamo un caos iridescente…”. O ancora: “Non c’era nulla da fare. L’immenso blu dai riflessi d’un rosso vivo mi scendeva nell’anima, mi cantava nell’anima. Io mi c’immergevo tutto intero”4. Come non pensare, leggendo di questo “caos iridescente”, di questo blu cangiante, “dai riflessi d’un rosso vivo”, a quelli che saranno i “cangianti” di Turcato?
Il demone eterno e sempre mutevole di Turcato è proprio il colore, che ora fa corpo con la materia profonda e densa dell’opera, ora brilla di un timbro dissonante, svelato dalle diverse incidenze della luce. Questo risulta evidente anche da alcuni scritti dell’artista, ad esempio da quella splendida analisi poetico-psicologica del colore viola (fondamentale nelle sue ricerche), che è anche un inno al cromatismo, consegnata a un manoscritto del 1977: “Viola luce intravista e annuncio di tenebre/ Viola diverso/ Viola è principio/ i colori sono la nostra libertà/ investono la materia e la trasformano/ la nostra fantasia è realtà nuova/ Viola via di uscita verso/ dentro”.5
Per Turcato si tratta di colore puro, timbrico, squisitamente antimimetico. Il timbro dice l’immediatezza, l’accensione istantanea della percezione, e designa perciò quella che è la tipologia stessa del rapporto del Soggetto col Mondo: il rapporto, cioè, con l’apparenza del Mondo, con la sua “gaietta pelle” (Dante Alighieri), con la festa variegata della sua apparizione, che la percezione registra allo stato puro, al di fuori di ogni interferenza d’ordine concettuale e, perciò stesso, al di fuori di ogni realismo. Per Turcato si tratta, da un parte, di liberare la percezione dai suoi supporti nozionali o culturali, ma anche, e soprattutto, di cogliere in essa, integrata e magari contaminata da quei supporti, la traccia di una realtà più profonda, traccia inscritta all’interno del Soggetto e di cui la percezione non è che il rispecchiamento: la “via di uscita verso/dentro”, come lo stesso artista la definisce. In un passo capitale della Phénoménologie de la perception, relativo al rapporto tra il colore e gli oggetti che ne costituiscono il supporto, Merleau-Ponty presenta l’esempio dell’esperienza pittorica:
Il pittore (…) giunge a vedere i colori (…) a condizione di isolarli dal contesto, per esempio strizzando gli occhi. (…) quando strizziamo gli occhi, noi liberiamo i colori dall’oggettualità delle superfici corporee e li riconduciamo alla semplice condizione di aree luminose. Noi non vediamo più corpi reali, (…) vediamo macchie colorate che sono tutte vagamente situate su uno stesso piano “fittizio”.6
Anche Turcato, sin dai primi quadri “figurativi”, libera il colore dalla sua condizione di attributo di un determinato oggetto e lo restituisce alla sua condizione primaria di “struttura della luce”. Lo stesso si può dire per tutti gli altri elementi costitutivi della visione pittorica: le masse, il volume, il chiaroscuro, i ritmi formali. Turcato si acceca, strizza gli occhi sino a far sorgere un mondo altro, un mondo delle forme pure, delle strutture non contingenti del colore, delle masse e dei volumi, svincolati dagli oggetti che li manifestano. Turcato scotomizza - occulta - la visione del reale in quanto contingente, culturale, storico, cosciente, quella visione che struttura il mondo nella figura che più o meno conosciamo: scotomizza la visione del mondo come sapere acquisito e inscritto negli ordini della cultura, e ci sorprende con la vertigine del nuovo. (Skòtos, in greco antico, è ombra, e nello stesso tempo vertigine).
Via via, in Turcato, la “scotomizzazione” del reale avviene sempre di più in funzione dell’infinita, e infinitamente proliferante, vibrazione luminosa. E’ in funzione, insomma, di una captazione parcellare e pervasiva della luce, nelle sue molteplici rifrazioni e diffrazioni, insorgenze e riflessi, mutamenti e continuità, da cui è incessantemente investito l’occhio che guarda . A questo proposito, ha scritto Emilio Villa:
Nessuna ‘luce’, possiamo dire, tra quelle che la pittura ha rivelato o adottato, è simile a questa che emana da ogni stesura di Giulio Turcato. (…) Turcato è da intendere oggi finalmente come altissimo Relatore di quella ‘luce’ che è protagonista (quasi mitica) di un universo semplice (mundus simplex), in tutto affine alle proprie intuizioni plotiniane e a quelle della maggiore Gnosi.7
Si tratta di un punto estremo del “vedere”, che ripudia il conoscere tradizionalmente strutturato, perfettamente circoscritto da alcune parole di Lacan che si leggono nell’XI Seminario a proposito, appunto, dell’occhio e dello sguardo, e che Turcato avrebbe forse potuto far proprie: “in ciò che si presenta a me come spazio della luce, ciò che è sguardo è sempre un qualche gioco della luce con l’opacità.”
Pur nella vocazione sentitamente engagée della sua arte, Turcato sembra ben presto incarnare quell’alta espressione umana del “fare disinteressato” al quale Kant attribuiva la creazione di una bellezza come finalità formale da percepire senza la rappresentazione di uno scopo, totalmente libera, simboleggiata dall’arabesco e guidata dalla “meraviglia”, e che tuttavia può attingere - come nel caso del nostro artista - alla dimensione seria e tragica della vita.
L’opera di Turcato si delinea subito come un viaggio nell’immaginario dove momento storico, condizione esistenziale, trascendenza, mistero della bellezza, si sovrappongono e si confondono . Qui emotività e controllo razionale, abbandono lirico e attitudine critica si amalgamano come in una mistura alchemica, per originare una figurazione che, recuperando il simbolo, sa veicolare significati profondi, immediatamente coinvolgenti e sconvolgenti.
Negli anni ’50 e ’60, con l’affermazione dell’astrattismo si precisa in Giulio Turcato l’aspirazione a un ideale e totalizzante universo pittorico, la quale fa sì che si trasformi in pittura ogni cosa toccata dalla sua immaginazione, al di là di ogni discriminante tecnica ed esecutiva. Da una parte, il linguaggio astratto di Turcato ripropone perennemente una densità psicologica e pulsionale che lo differenzia sia dalle tonalità analitiche sia da quelle astratto-naturalistiche. Dall’altra, il suo lavoro pone un problema critico ancora in gran parte disatteso, e che può riassumersi come proposizione di uno spazio-forma “aleatorio”, in un senso abbastanza analogo a quello che il termine ha assunto in riferimento a certi aspetti della ricerca musicale contemporanea. Non è quindi casuale la fascinazione di Turcato per la musica e il suo rapporto con grandi musicisti contemporanei come Luciano Berio e Goffredo Petrassi (studiato da Chiara Coppa-Zuccari), il bisogno di immergere le sue opere anche nel flusso reale della musica, in una sorta di “opera d’arte totale”, di teatro wagneriano. Sarà il caso, nel 1984-85, di Moduli in viola. Omaggio a Kandinskij, che è all’origine della scultura Superamento.
Gli anni ’50 sono teatro della nascita di straordinarie invenzioni espressive di Turcato: dalle ritmate scansioni di “arcipelaghi” cromatici ai segni-ideogrammi di una fantastica scrittura orientale, resa ancora più ambigua da vitalistiche pennellate di getto, ai reticoli labirintici, simbolo di una concezione “rizomatica” della vita e dell’arte, in cui infinite direzioni frantumano i riferimenti spaziali, rendendoli policentrici sin quasi ad annullarli. Con i suoi Reticoli, Turcato anticipa di oltre vent’anni la teoria epistemologica di Deleuze e Guattari, consegnata al libro intitolato appunto Rhizome, uscito in Francia nel 1976.8 Qui si abbandonano le concezioni del mondo organiche e prospettiche per una visione rizomatica, fatta cioè di una rete libera e infinita di conoscenze, “smontabile e collegabile a ingressi e a uscite multiple”. Si tratta quindi - per parafrasare i due filosofi francesi - dell’avvento di un sistema a-centrico, non gerarchico e non significante, senza memoria organizzatrice o automa centrale, definito unicamente da una circolazione di stati. In questa direzione si sviluppa un interesse verso gli aspetti morfologici di creazione, organizzazione ed evoluzione delle forme, che troviamo spiccato nella ricerca dell’artista mantovano, la quale ci appare sempre tesa verso un’autonomia della mente dai limiti materiali che il corpo incontra nel mondo naturale, verso un’esplorazione delle possibilità dell’esistenza che tende all’infinito. E come non pensare, anche, a una sorta di anticipazione metaforica - di trenta o quarant’anni rispetto al contesto della cultura occidentale - della rete telematica, di Internet? Oggi, grazie alla diffusione di Internet, l'idea di rete sembra divenuta ormai l'occasione privilegiata per porre in gioco questioni teoriche di vasta portata, ad esempio i concetti di mente, comunità, interazione, contatto a distanza, comunicazione. Ma tutto questo è gia presente nella poetica di Turcato, e in particolare in quella dei suoi Reticoli – che ricordano le ramificazioni delle cellule cerebrali - e dei suoi Arcipelaghi, che possiamo immaginare galleggianti in una sostanza conduttrice di impulsi e stimoli, creatrice, dunque, di comunicazione. Ecco allora che l'idea stessa della rete può porsi, già in Turcato, al centro di una nuova utopia estetica: trasformare il vecchio mito dell'autorealizzazione del soggetto, nonché il classico traguardo ideale del compimento dell'opera, in una ben più ambiziosa possibilità, per l'umanità intera, alla “dogana” del XXI secolo: quella di condividere le premesse culturali di una comunità dell'arte che sia davvero in grado di oltrepassare le mura fortificate dell'antica cittadella umanistica, spazio prospettico che ha dato i natali alla moderna figura dell'artista, mitica incarnazione di una soggettività sovrana. Turcato sembra dunque perfettamente consapevole del dissolversi nel Novecento degli ultimi sussulti vitalistici di una soggettività egocentrica e cartesiana, e pare predisporsi mirabilmente ad “abitare poeticamente” (Heidegger) il nuovo mondo.
Tutto ciò rinvia anche al suo interesse per la contaminazione tra materiali diversi, per un’alchimia che porta il suo lavoro a risultati sorprendenti. A cominciare dall’introduzione, nell’opera, di corpi estranei quali carta moneta (Lenzuolo di San Rocco, 1958; Ricordo di New York, 1963), brandelli di pelle (Giallo pelle,1961), pillole di tranquillanti (Tranquillanti per il mondo, 1961), secondo un’attitudine che può fare immediatamente pensare al dadaismo. Ma se lo scopo dei dadaisti era perlopiù quello di an-estetizzare l’arte attraverso l’introduzione della trita quotidianità, per liberarla da ogni residuo di soggettivismo e “romanticismo”, scopo di Turcato sembra, da un parte, creare una forte tensione ideologica enfatizzando il contrasto tra corpo estraneo (“realtà”) e pittura, dall’altra, potenziare attraverso questo stesso attrito l’impatto estetico, la portata e l’incisività dell’aisthesis, della sensazione, sullo spettatore.
Con Turcato, ciò che viene radicalmente rescisso – sin dalle prime opere ancora “figurative” - è ogni rapporto con qualsiasi mimesi, e cioè con qualsiasi quadro di relazioni acquisite tra soggetto e mondo, e di cui è la mimesi stessa a fornire testimonianza: rapporti di oggetti e di spazi, prospettiva, volume, cromia generale di riferimento a un visibile istituzionalmente acquisito (secolarmente acquisito). Uno dei tratti caratterizzanti dell’universo espressivo di Turcato, in relazione alla fenomenologia totalizzante della percezione, è costituito dall’'arabesco' e dalla 'decorazione', vale a dire da una linea vagante, morbida, fluida, come l’acqua e come il fuoco, in contrapposizione con la “superficie dura” della tela, con la “forma dura, fisica” (Turcato, 1982): linea, dunque, non mimetica, ma fantastica e, in certo modo, “decorativa”. Qui, ancora una volta, Turcato è un precursore: anticipa di decenni un’attitudine del post-moderno che trova il suo culmine, nel dibattito artistico e critico-teorico, nel corso degli anni Ottanta del Novecento. Questa linea allucina, per così dire, la forma: ci fa dono, in un certo senso, del suo fantasma, della sua inattingibilità (non per nulla, alla fine degli anni ’60 nascerà anche la serie dei Fantasmi).
E ancora una volta sembra potersi percepire, nel pensiero visivo di Turcato, la comprensione, l’assimilazione e l’interpretazione di vicende importanti dell’epistemologia e della scienza contemporanee. Per esempio le ricerche di Rutherford e la sua scoperta del nucleo dell’atomo (1911), con la conferma della dissoluzione della sostanza della materia nel gioco di forze elettriche fra atomi e molecole: il più grande cambiamento delle nostre conoscenze sulla materia, da Democrito in poi. Nel XX secolo, dunque, il fondamento della cultura materiale si è spostato dall’energia meccanica all’energia elettronica, e ciò ha determinato lo sviluppo della cibernetica, dell’informatica, della telematica, che ha trasformato radicalmente non solo le modalità di produzione di “oggetti”, ma anche la loro natura, e dunque il nostro modo di percepirli. La rigidità schematica della struttura meccanica ha lasciato il posto alla complessità della struttura elettronica, ai labirinti cibernetici: alla complessità labirintica o “nubiforme” dell’elettronica. Turcato, consapevole di ciò, sfrutta brillantemente in senso estetico questa consapevolezza della ciclica e infinita convertibilità reciproca materia-energia, della fluidità radicale e diffusa, che si fa immagine di bellezza nei suoi lavori. Dal visibile naturale si passa così alla raffigurazione pittorica di un invisibile che altro non è se non la febbrile energia che anima la natura stessa, il danzante brulichio degli elettroni e dei pulviscoli atomici, che si sottrae alle leggi di schematizzazione e classificazione, e obbedisce alle stesse leggi, complesse e “caotiche”, che governano le nuvole. Norbert Wiener, nel suo celebre libro Cybernetics , scrive che non esiste una vera e propria definizione scientifica di “nube”.
Nella nube, secondo Michel Serres9, si dispiega il senso del possibile, più che il senso del reale. Chi, come Turcato, è pervaso dal senso del possibile e dell’impalpabile, è attratto dalla nube, dalla sua anti struttura : corpo in-terminato e in-terminabile, eterico ed etereo. L’interesse per le leggi fisiche, in Turcato è insomma strumentale a una ricerca sulla forma suscettibile d’infinite articolazioni, cariche di valenze estetiche, che ruotano intorno al dinamismo, alla metamorfosi, al flusso. In questa ricerca, il microcosmo dell’immaginazione simbolica dialoga ininterrottamente con la dinamica della struttura cosmica. Lo spazio interiore e quello esterno, di cui noi stessi siamo il confine, sono racchiusi in quest’opera in cui tutto si muove e tutto è fluido e leggero, dove non esistono né corpi né forme stabili e rigide. E qui trova riscontro un’altra teoria fondamentale per la scienza contemporanea, che esercitava un profondo fascino su Giulio Turcato: quella della relatività einsteiniana.
La conseguenza più importante del sistema relativistico è stata la presa di coscienza del fatto che la massa non è altro che una forma di energia. Anche un oggetto in quiete ha dell’energia immagazzinata nella sua massa, e la relazione fra le due è data dalla famosa equazione di Einstein E = mc2 (dove “c” è la velocità della luce). I cubisti, i futuristi e i dadaisti avevano certamente conosciuto questi studi, o perlomeno avevano respirato il nuovo clima che la fisica andava elaborando. La teoria della relatività ristretta metteva in questione la stabilità di tutte le forme spazialmente estese, sostenendo che i corpi cambiano la loro forma, quando si muovono, rispetto ad un sistema di riferimento fisso; tutti gli oggetti tri-dimensionali si contrarranno quindi in figure piane, quando la loro velocità relativa raggiungerà la velocità della luce. La teoria generale della relatività demolisce invece il senso convenzionale di stabilità dell’intero universo materiale.
Secondo Einstein, ogni frammento di materia nell’universo genera una forma gravitazionale che accelera tutti i corpi materiali nel suo campo e modifica la loro dimensione visibile: non ci sono più corpi rigidi. L’Avanguardia Storica dei primi anni del secolo corre in parallelo alle scoperte della Relatività: il cubismo riflette il senso della relatività della conoscenza, mentre nel futurismo lo spazio è reso come elemento attivo e costituente l’atmosfera, al pari del “soggetto”, e l’atmosfera è messa in movimento dai corpi in moto che la fendono. Il linguaggio dell’arte, in questa nuova dimensione del sapere, dove il tempo è indissolubile dalla corporeità cosmica, in quanto espresso in termini di relazioni tra le varie parti che compongono il sistema, non può far altro che registrare una fenomenologia dell’oggetto in perenne traformazione e dislocazione. Tutto ciò sembra essere stato perfettamente assimilato da Turcato, che in maniera estremamente originale fa galleggiare i suoi “arcipelaghi” o gli elementi della sua Cosmogonia (1960), o le strane “ninfee” della Superficie violetta con elementi (1965), in un continuum spazio-temporale, in cui una sorta di centrifuga luminosa appiattisce le figure sulla superficie del quadro.
Ma Turcato non sembra indifferente neppure alla teoria di Max Planck, secondo cui l’energia radiante ha, come la materia, una struttura discontinua e non può esistere che sotto forma di granuli, o quanta. Alla fine degli anni ‘50 - inizio ‘60, l’esplorazione del mondo subatomico da parte della Fisica Quantistica rivela la natura intrinsecamente dinamica della materia: le particelle subatomiche appaiono quali configurazioni dinamiche, parti integranti di un’inestricabile rete di interazioni. Queste interazioni comportano un flusso incessante di energie, che si manifesta come scambio di particelle: un’azione dinamica reciproca, in cui le particelle sono create o distrutte in un processo senza fine, in una continua variazione di configurazioni di energia.
Con il principio di indeterminazione di Heisenberg e con la costante di Planck vengono a cadere i confini tra la materia e la luce, nello stesso tempo in cui perdono validità le tradizionali definizioni di spazio e di tempo. Con la disintegrazione delle dimensioni e con l’indeterminismo quantico, il continuum spazio-temporale a quattro dimensioni della relatività einsteiniana scompare, mentre emerge un discontinuum senza dimensioni. Quando Turcato introduce la sabbia negli scenari pittorici, sul finire degli anni ’50 (si veda ad esempio Desertico, 1957), sulle tracce del futurista Enrico Prampolini (il primo ad usare, per “dipingere”, particolari impasti “polimaterici” di sabbie e polveri), più che a un polimaterismo genericamente “informale”, sembra mirare a un effetto ottico di “discontinuità” e frammentazione percettiva, che metaforizza l’indeterminismo quantico, con la sua ambiguità. Ne nascono forme che spesso oscillano in una fluttuazione quasi ipnotica, che suggerisce la metamorfica fragilità della materia acquatica, come in Subacqueo (1963) o si annodano vertiginosamente, come in Apparizione (1966). La dimensione di sogno riesce a trattenere un’ombra, un’indecisione, una vacillante incertezza, che donano inquietudine al segno e gli consentono di divenire racconto di un sogno, appunto, e quindi anche di poter dimenticare questo sogno, una volta che sia divenuto esplicito, e soprattutto di far dimenticare che di sogno si tratti, oggettivandolo in una bruciante realtà percettiva.
Nei primissimi anni ’60 Turcato ufficializza con una serie di esposizioni la sua indagine sui colori "oltre lo spettro", scaturita da un interesse che l'artista manifesta soprattutto in relazione ai primi viaggi degli astronauti nello spazio (del ’61 è l’avventura di Yuri Gagarin, primo essere umano in orbita intorno alla terra), ricerca che continuerà negli anni ’70 ( si veda ad esempio Oltre lo spettro, 1971). L’artista cercava un colore “mai visto prima” , come quello che può vedere “un astronauta uscito dalla stratosfera”, diceva. Un colore da inventare o da re-inventare: da uno splendore policromatico quasi matissiano al monocromo, dove compaiono larvali presenze. Turcato farà così della sua arte anche un luogo di conquista interplanetaria, trasportando frammenti di altri pianeti all'interno della sua realtà creativa e visionaria, usando strumenti inconsueti per la pittura, e tuttavia efficacissimi per il suo scopo, come la gommapiuma e le sabbie, l'unione del catrame all'olio, le polveri d'argento.
L’uso di sostanze fluorescenti e fosforescenti e delle celebri gommepiume, protagoniste delle varie Superfici lunari (si veda la stupenda Superficie blu viola del 1964), combinano il ritrovamento fortuito di materiali e sostanze con una sperimentazione vigile e instancabile, perenne, attiva anche durante le passeggiate senza meta di cui Turcato ci racconta in un suo scritto. Esibendo la plateale falsificazione alchemica delle “superfici lunari”, Turcato crea un mondo fantastico, parallelo, più convincente e intrigante, nel suo esibito artificio, di quello comunemente inteso come reale. In questo senso, i buchi delle sue “superfici lunari” sono lontanissimi dal drammatico sconfinamento in uno spazio incognito dei “concetti spaziali” di Fontana. Sono seducente inganno, trompe-l’oeil, allucinazione colorata di colori aspri ed acidi, viaggio psichedelico, tra 2001 Odissea nello spazio e Arancia meccanica, che le superfici argentee e fluorescenti di Turcato anticipano di alcuni anni.
Negli anni ’70 le campiture di colore si fanno più ampie e nette, le superfici pittoriche diventano vaste distese monocrome in cui spiccano pochi elementi essenziali, ma emerge anche un estro inventivo e fantastico sempre rinnovato (Testa di moro, 1970; Sole verde, 1972; La passeggiata, 1972; Il Tunnel, 1972). Turcato sembra procedere per sottrazione, per rarefazione, sulla via di una riduzione agli elementi primari della pittura, cui non sono certo estranee le ricerche della “pittura analitica” di quegli anni. Ma, lungi dall’affidarsi alla pura tautologia dei materiali e degli strumenti espressivi, Turcato mantiene sempre vivi nella sua pittura il racconto del sogno, l’avventura dell’immaginazione, la curiosità dell’interpretazione. Si avverte sempre di più l’esigenza, nell’artista, di sconfinare, di oltrepassare i limiti della pittura , di allargare i suoi dominî magici ed aleatori. La ricerca procederà sino a tutti gli anni ‘80 sulla via di un ricorso sempre più frequente ad ampie stesure, nel tentativo di superare i limiti fisici della tela, oppure alla materializzazione della pittura nelle tre dimensioni dello spazio, rendendola corporea nelle straordinarie invenzioni materico-cromatiche della scultura di Turcato, a partire dalle Libertà degli anni ’70, sino alle Oceaniche, sino ai Moduli in viola e a Superamento.
Il solido scompare nel fluido, la luce nei colori. L’aria, l’acqua, il fuoco, la musica, respirano nelle immagini di Turcato. Si può pensare alla forma stocastica e inafferrabile della fiamma : pensarla improvvisamente “gelata”, come a formare misteriose quanto imprevedibili mappe, e si avranno queste alchimie dell’immagine.
L’opera di Turcato evoca un felice senso di simbiosi tra colore, materia, luce, suono, il senso del loro essere tutt’uno con l’idea e insieme col gesto, col tratto, col tocco . E’ dunque solo in un’accezione molto particolare che si può parlare di “astrattismo” per questo artista, un’accezione in cui il mentale e il materiale, la sfera del pensiero e quella della percezione, arrivano a toccarsi e quasi a identificarsi. “Astrazione sensibile” può essere forse, allora, un’espressione adatta a definire l’arte del maestro. Qui le schegge luminose del pensiero non si perdono nel labirinto della pittura, ma vi s’incastonano come segni di una soglia tra visibile e invisibile. La pittura esita sulla soglia della musica, la materia sulla soglia del colore, indice di libertà vitale e mentale.
L’artista intona le sue “scale cromatiche” conducendo un finissimo gioco di tratti e di nuances, basato sul continuo differenziarsi dei “quanta” luminosi che dinamizzano il rapporto intervallare tra i diversi colori dello spettro. Un gioco che, strutturandosi in modo affine a una composizione musicale, sembra anche fare riferimento alla doppia natura, continua/discontinua, del tempo.
Si tratta di un percorso attraverso situazioni spazio-temporali sempre rimesse in discussione, sino a conferire all’itinerario artistico di Turcato una connotazione di infinito arabesco, indice di un pensiero nomade ed erratico, lontano dal primato della ragione che caratterizza il pensiero classico e la logica aristotelica, governata dai principi d’identità e di non-contraddizione. Per Kant l’arabesco, nel libero gioco dell’immaginazione, scopre i rapporti tra il mondo della contingenza e il mondo della libertà, diviene la più sottile e delicata metafora dello spirito, un diaframma fragilissimo attraverso il quale l’uomo può avvicinarsi all’assoluto. E sempre pensiamo all’arabesco quando vediamo, nelle opere di Turcato – i Fantasmi, gli Itinerari, i Cangianti, o le fiabesche tessiture segno-colore di certe opere tarde, come Evocazione (1986), Acquatico, o Coincidenza notturna (entrambi dell’89) - dipartirsi filamenti di conturbante viscosità, o germogliare galassie di pulviscoli iridescenti, mentre bellissime volute neobarocche catturano la nostra mente, la involvono in una fascinazione inestinguibile. Del resto, un’acutissima intelligenza critica del secolo XIX, Charles Baudelaire, aveva definito l’ “arabesco” come “il più spirituale dei disegni”.
Ed effettivamente, nell’opera di Turcato, i corpi e le forme si disincarnano, trapassano nell’amalgama colore-luce-linea-suono. Il corpo si scioglie nella matrice stessa del sensibile restando tuttavia, sensibilmente, matrice della pittura. Turcato interpreta dunque con grande originalità la lezione di Kandinskij, che nel 1912, nel suo testo Dello spirituale nell’arte, aveva teorizzato lo spirituale quale valore assoluto e l’avvicinamento dell’immagine allo statuto della musica, dando così un nuovo corso all’arte occidentale.
Turcato tende ad accreditare una ragione che si presenta irregolare e a-simmetrica, che pone le sue radici sui territori del caos e della complessità. Il pensiero visivo di Turcato, il suo pensiero-arabesco, si snoda liberamente e infinitamente, proclamando la negazione di qualsiasi struttura chiusa, tracciando un percorso atopico lungo il quale si dipana la conoscenza. Qui ragione e immaginazione si fondono, come tutti gli altri opposti, e l’ibrido e il cangiante esprimono la volontà seria e giocosa di continuare ad errare, a vagabondare in quelle passeggiate senza meta dell’artista, che erano “itinerari sia esteriori che interiori”.10
Siamo alla fine del secolo XX, quando le teorie epistemologiche delle “strutture dissipative” e della “complessità” ridisegnano la conoscenza ed il sapere della contemporaneità. La complementarità, la processualità, l’interdisciplinarità, che erano i campi del sapere entro i quali gravitavano i movimenti degli anni ’60-’70 nell’arte, vengono ora scavalcati da una nuova visione del mondo che presuppone nuove categorie di pensiero, quali l’interazione, la coevoluzione, la complessità, la contraddittorietà, la traslocazione, la relazionabilità.
L’arte di Turcato appare assolutamente partecipe di tutto ciò, e consapevole di convivere con il flusso indeterminato e caotico delle immagini telematiche. Da una parte, si pone in continua contrapposizione con un reale dissolto dalla marea telematica, dall’altra sembra vivere nella piena coscienza del ruolo dell’immagine elettronica nella contemporaneità, e accetta di confrontarsi costantemente con essa proprio sul suo terreno: quello della crisi dimensionale e dello spazio come discontinuum.
Nell’arte il “grande stile” - affermava Nietzsche - consente “il raffinamento dell'organo per la percezione di molte cose piccolissime e fuggevolissime”11: esprime dunque anche la volontà di percepire e d'incarnare la complessità di queste cose “piccolissime e fuggevolissime”. Il concetto nietzschiano di “grande stile” può essere interpretato come coscienza del caos in quanto forma complessa . Si può allora stabilire un parallelismo con una delle più rilevanti tendenze attuali della scienza, di cui nell’opera di Turcato si può cogliere il riflesso: quella che si esprime nelle teorie del caos e della complessità. Il panorama delle scienze fino alla metà del Novecento è dominato da una concezione riduzionistica, fondata sull’assunto che sia sempre possibile ricondurre la spiegazione delle proprietà di un sistema costituito da un gran numero di unità elementari, tra loro interagenti, alla conoscenza delle proprietà semplici di queste unità . Dagli anni ’60 in poi la prospettiva comincia a mutare : invece di cercare di unificare diversi fenomeni complessi e irregolari attraverso l’identificazione di elementi semplici e regolari comuni che ne costituirebbero la struttura essenziale, il nuovo approccio sottolinea al contrario che sistemi strutturalmente identici possono manifestare comportamenti estremamente diversi.
Già nel 1908, del resto, il matematico Jules Henri Poincaré aveva scritto nel suo libro Science et méthode: “Può accadere che piccole differenze nelle condizioni iniziali producano un errore enorme in quelle successive. La previsione diventa impossibile...”. Il nuovo indirizzo scientifico propone perciò di rinunciare alla priorità epistemologica delle categorie di semplicità, ordine, regolarità , a favore delle categorie opposte: complessità, disordine, caoticità. Il pulviscolo caleidoscopico di frammenti policromi o l’annodarsi labirintico delle linee , nei lavori di Turcato, sembrano rappresentare splendidamente queste categorie nell’ambito dell’espressione artistica. Il mondo di Turcato è un mondo di oggetti complessi, frammentati, metamorfici, un mondo, si direbbe, di oggetti frattali12. L’opera è il respiro di un mondo che cresce e si frantuma, in un perenne ciclo di aggregazione-disgregazione ; è il vitale reperto di uno spirito alla ricerca del dentro-fuori di quel mondo. Quasi una metafora della percezione stessa che, biforcandosi ininterrottamente tra il visibile e l’invisibile, tra il dato della natura e la sua trasfigurazione visionaria, invita a un progressivo avvicinamento, attraverso le varie, palpitanti superfici, a un’inattingibile origine. Ma nel momento stesso in cui l’universo si svela, narrandosi in queste musicali partiture visive, esso svanisce, si annulla come universo per farsi pittura, puro significante, brivido musicale, danza, arabesco.
Roland Barthes scrive che anche la fantasia più bizzarra rinvia ad un principio di delicatezza. Pare proprio che sia il demone lieve e intenso della delicatezza a guidare Turcato, a orientare il suo desiderio di sciogliere i nodi pesanti e fascinosi della materia, nella tensione sempre rinnovata verso la leggerezza assoluta della pura forma-colore. Si profila nella sua opera una dialettica, intrigante ed enigmatica, di pesantezza e leggerezza, di pieni e di vuoti. Ecco la materia rarefarsi, sciogliersi, digradare verso forme sempre più evanescenti, quelle forme-non forme che “quasi in sogno soltanto possiamo pensare” (Pico della Mirandola). Parvenze la cui lunatica esilità sembra memore dei fantasmi di Wols, e in cui si distilla e culmina tutta la grazia di un’arte che sa penetrare nel silenzio della materia per ascoltarvi le armonie della luce e del colore.
Silvia Pegoraro, Giulio Turcato: la forma del fuoco. Tra scienza e poesie, Museo d'Arte Moderna Vittoria Colonna Ex-Aurum, Pescara, dicembre 2007 - marzo 2008, pp. 27 - 35.
Note a piè di pagina
1. G. Turcato, La dogana (1985), in Turcato, cat. mostra, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, febbraio - aprile 1986 (a cura di A. Monferini, De Luca-Arnoldo Mondadori, Roma - Milano, 1986, p. 28.
2. E. Villa, Pittura di Giulio Turcato, in 'Arti Visive', 1, Roma, 1955.
3. G. Turcato, Crisi della Pittura, in 'Forma 1', Roma, 15 marzo 1947.
4. P. Cézanne - J. Gasquet, Cézanne, Paris, 1921
5. G. Turcato, Viola, in F. Gualdoni, Giulio Turcato, Silvana Editoriale, Milano 2001, p. 213.
6. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945, p. 345 (la traduzione è nostra).
7. E. Villa, La 'luce' di Giulio Turcato, cat. mostra, Galleria Fontanella Borghese, Roma, 1977.
8. Cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Rizoma, trad. it., Pratiche, Parma, 1977.
9. M. serres, Passaggio a Nord-Ovest, trad. it., Partiche, Parma, 1984.
10. G. Turcato, Io, Turcato, in 'BolaffiArte', XII, 106, Torino, marzo 1981, poi in F. Gualdoni, Giulio Turcato, Silvana Editoriale, Milano, 2001, p. 215.
11. Ibidem, p. 38.
12. Cfr. B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, trad. it., Einaudi, Torino, 1987
Se ben ricordo, la prima volta che incontrai Giulio Turcato dovevo avere 10 anni. Doveva essere intorno alla fine del 1953, a quel tempo ero in collegio, uscivo solo la domenica per stare in famiglia, composta da mia madre e mia sorella: pranzo – cinema – rosticceria e poi la corsa per tornare alle 7 di sera si succedevano con regolarità, a volte interrotta da varianti eccitanti. Una di queste era il pranzo alla trattoria dei fratelli Menghi, sulla via Flaminia a pochi passi da piazza del Popolo.
Era un ristorante ma anche un ritrovo, soprattutto serale (e notturno), per gruppi alquanto eterogenei di intellettuali, tra i quali pittori, scrittori, e cinematografari. A far incontrare queste categorie erano spesso gli orari strampalati ai quali erano abituati gli artisti e i letterati da una parte, e dall’altra quelli da schiavisti dell’industria cinematografica, che a quell’epoca era praticamente senza regole.
Era lì che qualche anno prima mia sorella Vana – più grande di me di 17 anni – introdotta da amici e alla ricerca disperata di un lavoro, aveva avuto notizia di un posto vacante come segretaria di edizione (oggi credo che si dica “script supervisor”) in un film di cui stava per iniziare la produzione. “Tu sai cosa fa la segretaria di edizione, vero?” le disse l’amico dell’amico che le segnalava l’opportunità. “Ma certo!” rispose lei, ed andò all’intervista il giorno dopo, non senza prima aver fatto visita alla biblioteca per capire quali fossero le mansioni di una “segretaria di edizione”. Con questo strattagemma ebbe il posto ed iniziò così la sua carriera cinematografica; la sua frequentazione degli altri avventori della trattoria ne risultò accresciuta, e produsse vari altri effetti, tra cui l’incontro con Turcato. Si sarebbero sposati più tardi, dopo 15 anni di vita insieme.
Molti degli aneddoti generati da Turcato in quel periodo sono ben raccontati nel libro “Osteria dei pittori” da Ugo Pirro, scrittore e sceneggiatore; di alcuni sono stato anche testimone, ne conosco l’origine e le conseguenze, anche quelle non raccontate da Pirro. Io però, data la mia giovane età, ero lì come una mosca su una parete: osservavo, assorbivo anche quando non capivo niente di quello che si dibatteva, riflettevo, insomma imparavo a vivere. E poi, visto che ci mangiavo solo a pranzo, raccoglievo solo gli echi delle serate interminabili, a volte epiche, che riverberavano in quegli ambienti per giorni e settimane dopo, grazie anche alla generosità intellettuale di Naride (quello dei due fratelli Menghi che più teneva al rapporto con la clientela) che a volte dispensava delle chicche storiche a noi frequentatori del pranzo domenicale.
Avevo un sacro rispetto per Giulio, misto alla simpatia per la familiarità con cui mi trattava, perché i suoi discorsi erano sempre sorprendenti, sconcertanti, pieni di improvvise divagazioni: a volte iniziava senza preavviso a parlare di un argomento alquanto tosto, come se si fosse discusso solo di quello fino ad allora; in effetti capii solo più tardi che continuava ad alta voce un discorso interno che andava avanti da chissà quanto tempo. Fatto sta che la mia conoscenza iniziale di Turcato aveva un carattere grossolano e superficiale: se avessi dovuto descriverlo in quegli anni, avrei parlato di un artista eccentrico, ironico, divertente, che spesso alzava troppo il gomito.
Sei anni più tardi, adolescente ma non ancora maturo, stavo cercando di organizzare il mio primo espatrio estivo contro le resistenze di mia madre che ancora non si fidava, quando Giulio mi venne inaspettatamente in aiuto. Avevo progettato un viaggio di 2 settimane in Germania: sarei andato a Colonia in treno ed avrei risalito a tappe il corso del Reno visitandone i castelli fino a Magonza con i battelli fluviali, pernottando negli ostelli della gioventù che ne costellavano le rive. Giulio era stato invitato a partecipare a ‘documenta II’, a Kassel. Nel 1959 quella manifestazione era alla sua seconda edizione, ma aveva già conquistato un prestigio internazionale. Perché non incontrarsi a Kassel all’inaugurazione? In seguito avrei potuto realizzare da solo il resto del mio programma. Rassicurata dalla presenza anche parziale di un adulto, mia madre sciolse le sue riserve ed apprensioni, e così Giulio ed io ci accordammo sul nostro appuntamento a Kassel.
Avevamo convenuto di incontrarci alla stazione: il treno proveniente da Milano doveva arrivare nel pomeriggio del giorno stesso dell'inaugurazione della mostra. Era un luglio splendido, e per la prima volta in vita mia ero fuori dai patrii confini, armato di un passaporto nuovo di zecca e di qualche centinaio di marchi: ero eccitato, pronto all’avventura. Ma all'ora prevista Giulio non si manifestò ed io, non avendo preparato nessun contropiano per questa evenienza, atterrito com’ero al pensiero di rimanere isolato e senza notizie, non seppi far meglio che restare lì, al centro del meeting point, a guardare gli altri affaccendati viaggiatori, seduto su una delle panchine dalla quale potevo controllarne l’andirivieni. Solo all'imbrunire Giulio si materializzò davanti a me, con l’immancabile basco, il cappotto, ed una valigetta di fibra rossa in mano. Faceva caldo, ma avevo ormai fatto il callo alle sue abitudini, che implicavano un sacro orrore del freddo di qualsiasi entità, dal quale spesso si proteggeva “incartandosi” con fogli di giornale indossati a sandwich tra i maglioni. Giulio appariva fresco come una rosa, sbarbato e di buon umore: si era addormentato nel suo scompartimento e, sorpassando Kassel, aveva raggiunto Göttingen, 70 km più a nord, dove aveva preso un treno in senso opposto e approfittato per farsi una toilette completa. Era riuscito a scendere alla stazione di Kassel qualche secondo prima che il treno ripartisse per il sud, per un'altra eventuale oscillazione del pendolo che sembrava dominare la sua agenda.
Ero così contento di vederlo che mi offrii di portargli la valigetta per arrivare insieme all'albergo, non lontano dalla stazione, dove avevo prenotato una stanza per due. Durante il percorso mi domandavo che cosa potesse mai contenere, dato che pesava come un macigno.
Nella stanza lo vidi aprire il suo bagaglio: una sbirciata discreta non bastò perché il suo contenuto era troppo insolito. Mi avvicinai per constatare che tutto il volume della valigetta era occupato da tubetti di colore e da materiale per pittura o disegno. Colori ad olio, a tempera, di varie dimensioni e nuances, una bottiglietta di acqua ragia, pennelli, matite, gessetti e carboncini, fogli di carta da disegno di vario spessore, di cui alcuni già coperti da schizzi e progetti; alcune delle composizioni sembravano visioni di paesaggi dal finestrino di un treno. Più tardi, durante i preparativi per la serata, lo vidi estrarre da un angolo di quella valigetta da emigrante uno spazzolino da denti: a me chiese se avevo del dentifricio.
Quella notte a Kassel capii che almeno parte di quell’equipaggiamento costituiva una specie di kit di riparazione che Giulio si era voluto portare per eventuali ritocchi da dare ai suoi due dipinti in esposizione; infatti andammo ad ispezionare le tele già appese, che però erano arrivate in buone condizioni. Ma per me quella nella camera d’albergo fu una vera e propria epifania di Giulio Turcato, il momento in cui ho creduto di cogliere l’essenza dell’artista. Giulio si è sempre rivelato, in questo come in altri episodi che hanno costellato il tempo passato insieme, una sorgente straordinaria di freschezza e di candore, paragonabile alla sua onestà d’artista ed al suo attaccamento al lavoro. Perché di questo si trattava: di curiosità ed attenzione indivisi e brucianti per tutto ciò che lo circondava, e che si materializzavano attraverso il suo lavoro in modo continuo ed inarrestabile. Ma intendiamoci bene, quel tipo di lavoro che è l’irreprimibile felicità di espressione attraverso qualsiasi mezzo, in qualsiasi circostanza o luogo. Sono sicuro che Giulio si portava appresso quell’armamentario -- ad esclusione di qualsiasi altro genere di conforto – non solo perché non voleva annoiarsi, ma perché era l’unica cosa che lo interessava, che sapeva fare bene, e che – sopratutto – lo rendeva felice e completo.
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Mi auguro che i nostri ospiti newyorkesi percepiscano, attraverso questa mostra che vede il ritorno di Turcato dopo tanti anni, una testimonianza concreta e diretta di questa sua felicità espressiva ed esistenziale. Non essendo critico d’arte mi è parso che raccontare questa briciola di storia potesse contribuire ad illuminare la sua personalità, la sua poetica, ed a rinnovare il senso d’incanto che si prova quando si ha l’occasione di entrare in sintonia con il talento di un grande artista.
Ettore Caruso
Roma-New York ottobre 2014
Doveva essere ottobre del 1962, l’autunno romano inoltrato. Giulio ed io avevamo appena finito di cenare con “luganeghe e patate”, una delle ricette alle quali era affezionato fin dalla sua giovinezza veneziana. Vana, impegnata nelle riprese de “Il mafioso” non era con noi, forse a New York per le scene ambientate in America. Eravamo nell’appartamento di via Ripetta 226…ricordo questi dettagli perché quella sera e la notte che seguì sono rimaste nella mia memoria con una permanenza e vivacità insolite.
Da quando avevo iniziato l’università, nel 1961, la mia frequentazione di Giulio si era espansa fino a diventare una consuetudine quasi giornaliera: la libertà che mi dava il mio stato mi permetteva di rispondere alle sue richieste di assistenza nel suo lavoro in modo discontinuo ma efficace: acquisto di materiali, preparazione dei fondi, qualche trasporto di quadri, varie altre commissioni. La sua proverbiale generosità rendeva compatibile il lavoro con la frequenza universitaria. Cosa di cui non mi rendevo conto allora, si trattava di una opportunità che mi sarebbe servita in seguito, quando nel 1995, scomparsi Giulio dapprima e Vana poi nel giro di sei mesi una dall’altro, mi ritrovai a dover onorare il loro testamento, che mi chiedeva di prendere le redini dell’Archivio Storico e Fotografico dell’opera di Turcato, da loro fondato nel 1972. La continuità che avevo avuto il privilegio di godere nell’osservare i suoi metodi di lavoro, le tecniche, le relazioni con gli artisti coevi, con i galleristi, in una parola con tutto il mondo che girava intorno alla sua arte, ma anche le epiche chiaccherate fino a tarda notte, mi dettero modo di accettare il compito con fiducia nelle mie risorse e con l’affetto che avevo sempre portato, e che porto tuttora, per questo gigante dell’arte Italiana e mondiale.
Quella sera, dopo un po’ di zapping, ci fermammo a guardare un documentario che mostrava lo scienziato spaziale tedesco Wernher Von Braun mentre spiegava a John Kennedy come l’uomo sarebbe arrivato sulla luna, e ritornato sulla terra.
Eravamo in piena guerra fredda. Kennedy, in risposta alla sfida lanciata dai Russi prima con lo Sputnik (1957) e poi con la messa in orbita di Gagarin (1961), aveva lanciato, immediatamente a ridosso dello storico “primo uomo nello spazio” russo, l’ambizioso programma “Man on the Moon”, che avrebbe visto il primo umano imprimere il suo passo sul suolo lunare entro la fine della decade corrente..
Dati i miei studi tecnici e l’interesse che portavo per la corsa allo spazio, mi ero sempre documentato accuratamente e approfonditamente sulle sfide che questo programma comportava. Sapevo che la decisione di Kennedy aveva immediatamente messo in moto una specie di rivoluzione nella NASA e nell’industria americana attinente, e che l’improvviso afflusso di fondi nel sistema aveva già prodotto, a distanza di un solo anno dall’epico annuncio, movimenti e cambiamenti importanti nel sistema industriale americano. Ma trovarsi di fronte a un Von Braun in piena forma che dettagliava, con l’aiuto di un modello del Saturno 5, la sequenza di lancio, trasferimento in orbita lunare, allunaggio, ripartenza e ritorno a terra della capsula Apollo, di fronte a un Kennedy ammirato ma sostanzialmente ammutolito, fu un’esperienza del tutto particolare, che mi è rimasta perennemente impressa nella memoria.
Anche Giulio era silenzioso, vedevo che la storia lo stava lavorando dentro. Kennedy fece qualche domanda, ma la flemma e la sicumera di Von Braun erano veramente travolgenti. Mi piacerebbe poter rivedere quel documentario per provare ancora una volta quelle sensazioni di meraviglia e sbalordimento, anche se so che non sarà più la stessa cosa. Fatto è che, quando finì il documentario, Giulio cominciò a far domande. Ero o no uno studente di ingegneria? Anche se ero preparato e potevo rispondere alla maggior parte degli interrogativi, la foga di Giulio e la mia stessa “sbornia” di fronte a una dimostrazione così impressionate di fiducia in una tecnologia che stava nascendo crearono un momento emozionante per tutti e due. Credo che a forza di discutere non solo sulle possibilità di realizzazione di un tale gigantesco progetto, ma anche sulle sue conseguenze vicine e lontane, facemmo l’alba.
Giulio Turcato è sempre stato molto interessato agli sviluppi di scienza e tecnologia, e spesso ha riversato questo interesse nelle sue opere. Non per niente la serie dei “Giardini di Miciurin”, degli anni 1952-54, è il derivato diretto di una teoria scientifica. Ivan Miciurin era uno scienziato botanico e genetista russo, i cui studi e sperimentazioni erano stati così promettenti da dar luogo, nel corso del regime staliniano, alla teoria che, seguendo i suoi metodi, l’umanità sarebbe stata presto in grado di soddisfare ai bisogni alimentari del pianeta per il futuro prevedibile. La traduzione di questo concetto in alcuni quadri di Turcato, in cui si percepisce nettamente la sensazione di abbondanza e di pienezza della natura, anche se così astrattamente ritratta, è esemplare e permette di considerarla come antesignana di altre successive incursioni del maestro nell’arena scientifica e tecnologica.
Nel frattempo, dopo la famosa sconvolgente nottata passata a discutere dello spazio, cominciai a notare che Giulio approfittava, nel comprare il giornale o delle riviste, degli allegati e supplementi che la stampa forniva a supporto dei servizi sul tema spaziale, rispondendo ad un vivo interesse del pubblico. In particolare, scoprii che aveva portato nello studio delle riproduzioni in plastica della mappa della faccia visibile della luna. Ora so che c’era qualcosa che aveva cominciato a lavorarlo. Ma non dovetti aspettare molto per vedere gli effetti di questo tarlo.
Un giorno, più di un anno dopo il documentario, Giulio mi chiese di accompagnarlo a visitare una fabbrica di Pomezia, dove avremmo ritirato del materiale sul quale aveva da poco iniziato a fare una ricerca. Giulio non guidava e quindi anche per questi movimenti spesso si affidava a me.
A Pomezia erano sorte, da quando il materiale era diventato popolare, due o tre ditte di fabbricazione di materassi e altri oggetti di gommapiuma; quella che visitammo gli era stata segnalata da amici. La visita durò un’intera mattinata, durante la quale avemmo l’occasione di seguire la lavorazione di una partita di prodotto. Il tutto cominciava col formare, in un grande contenitore metallico, una mescola a base di poliuretano liquido, alla quale venivano aggiunti degli additivi specificamente dosati per ottenere vari risultati, soprattutto la porosità e la consistenza del prodotto finito. Una volta terminata la preparazione, la mescola veniva convogliata in una piscina rettangolare poco profonda, dotata sulle pareti di numerosi insufflatori disposti in modo da soffiare aria dal basso e trasformare così, mentre la reazione degli elementi aveva luogo, una massa liquida in una schiuma porosa semisolida ed elastica, il più possibile omogenea : la gommapiuma. La superficie della massa liquida, attraversata dal flusso d’aria emergente dal basso, man mano che la reazione si “raffreddava” cominciava a formare una crosta sulla quale si disegnavano bolle e crateri. A operazione (e reazione) finita, rimaneva una superficie brozzolosa, piena di bolle e di crateri (o bolle scoppiate) di tutte le dimensioni, molto simili a quelli della superficie luna. Cosa facevano gli operatori? Con uno strumento previsto per la bisogna, riuscivano a tagliare quei 3 o 4 centimetri di “pelle” corrugata che si era formata in superficie, rivelando il resto della massa porosa omogenea e scevra di imperfezioni, che sarebbe poi stata tagliata su misura per produrre materassi, cuscini, eccetera. A noi non rimase che caricarci del rotolo di gommapiuma ricavato dalla “scorticatura” della piscina, e portarlo a studio. Non ricordo se Giulio pagò qualcosa per il servizio reso.
Ormai la tecnologia moderna ha superato il tipo di fabbricazione degli anni’60: oggi si parla di colata continua e altre diavolerie del genere, processi che non permettono più la raccolta delle “croste” di buona memoria, quelle che affascinavano Giulio Turcato.
Di lì a poco cominciarono ad apparire le prime gommepiume di Turcato. Eravamo ormai nel 1964 inoltrato: quasi due anni erano passati dal documentario sull’”Uomo sulla luna” di Wernher Von Braun e JFK.
Il resto degli anni ’60 passò in un lampo, e nel 1969 l’uomo mise veramente il suo piede sulla luna. Ma Turcato c’era già stato (e tornato) qualche anno prima.
Ettore Caruso
24 ottobre 2018